Torna la minaccia della sindrome italiana Bce di nuovo in campo contro il contagio

Torna la minaccia della sindrome italiana Bce di nuovo in campo contro il contagio

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BRUXELLES. È LA seconda volta che, in pieno agosto, Mario Draghi suona la campanella di fine ricreazione per il governo italiano. La prima fu da governatore di Banca d’Italia. CON la lettera-ultimatum che lui e Trichet spedirono a Berlusconi il 5 agosto del 2011. Ricordiamo tutti come andò a finire. Il governo fece orecchie da mercante. Lo spread impazzì. Berlusconi fu costretto alle dimissioni per scongiurare la bancarotta, risultato poi ottenuto dal governo Monti a costo di sacrifici sanguinosi. Questa volta il presidente della Bce ha scelto modi e toni più morbidi e meno ufficiali, anche perché la situazione italiana appare meno disperata. Tanto che lo stesso Renzi ha potuto affermare ieri sera, in tv, che «l’Italia ha delle condizioni economiche per le quali è molto più forte delle paure di chi o teme un default o un fallimento» e che l’ipotesi che arrivino lettere da Bruxelles «non esiste».
Ma la sostanza del messaggio di Draghi è, desolatamente, in gran parte la stessa: fate le riforme, non scoraggiate gli investitori, rimediate alle inefficienze della burocrazia e della pubblica amministrazione. Manca la parte che riguarda il risanamento dei conti pubblici, visto che su questo fronte alcuni risultati sono stati ottenuti, anche se ora l’Europa teme che vengano rimessi in discussione. Ma sugli altri temi della governance economica la ripetizione delle stesse raccomandazioni che Bruxelles e Francoforte ci rinnovano con scadenza quasi mensile ci offre la misura di quanto poco siano riusciti a concludere tre governi in tre anni.
E infatti le dichiarazioni di Draghi contengono a questo proposito una fondamentale novità che costituisce una bomba politica, in primo luogo per l’Italia ma anche per l’Europa nel suo complesso: la richiesta che i governi nazionali rinuncino alla propria sovranità sul fronte delle riforme economiche. L’esperienza dovrebbe averci insegnato che Mario Draghi non parla a vanvera. E che le «richieste» della Bce raramente contemplano l’eventualità di un no. Per cui si può stare certi che il nuovo corso europeo, segnato dalla Commissione di Jean-
Claude Juncker, punterà sostanzialmente a togliere ai governi che non hanno saputo esercitarla la sovranità sulle riforme economiche e strutturali, così come l’Europa ha già tolto ai governi immeritevoli la sovranità sulla gestione dei bilanci.
Il ragionamento di Draghi è semplice: da anni i governi europei concordano sulla necessità di riforme strutturali che migliorino la competitività, attraggano investimenti e stimolino la crescita. Quei Paesi che hanno tenuto fede agli impegni, magari perché sottoposti alla «amministrazione controllata» della troika, ora sono in ripresa economica. Quelli che, nonostante le promesse, hanno concluso poco o nulla, si trovano a fare i conti con una crescita debole o addirittura negativa, come l’Italia.
Ma perché le riforme richieste, e promesse, non sono state fatte? La Bce sembra essere giunta alla conclusione che i fallimenti registrati in questi anni non siano dovuti a malafede, come era stato il caso del governo Berlusconi- Tremonti, ma all’incapacità del sistema politico di superare resistenze che si dimostrano più forti anche della volontà espressa da governi e maggioranze parlamentari. Da qui la necessità di trasferire la sovranità politica ad un livello che, travalicando i confini e i poteri nazionali, sia in grado di imporre le proprie scelte.
La sovranità che Draghi chiede ai governi di consegnare all’Europa è, di fatto, una sovranità che questi governi hanno dimostrato di non sapere esercitare. Se la politica italiana da mesi è monopolizzata dalla riforma del Senato e del sistema elettorale, e dimentica di mettere in atto i tagli alla spesa promessi da tempo, “licenzia” il commissario alla spending review, rimanda le privatizzazioni, rinvia a settembre la riforma della giustizia, l’Europa ha il dirittodovere di richiamare il Paese alle priorità liberamente concordate. Anche perché, se non viene da Bruxelles o da Francoforte, il richiamo arriva in termini più bruschi e infinitamente più
dolorosi dalle cifre negative della crescita economica e dal rialzo dello spread.
Renzi fa bene a non ignorare né sottovalutare il richiamo che arriva da Draghi. Considerando oltretutto che l’italianità del presidente Bce gli rende più difficile pronunciarsi, come autorità terza e imparziale, sulle questioni interne del suo Paese di provenienza. Ora la partita su cui dovrà concentrarsi il governo italiano è quella sui modi di un parziale trasferimento di sovranità che appare comunque inevitabile. Se vogliamo evitare la troika, che si è rivelata efficace ma in alcuni casi socialmente traumatica, faremmo bene ad usare la presidenza del semestre europeo per promuovere nuove forme più morbide di condivisione della sovranità politica sulle riforme: dagli accordi contrattuali ad un uso condizionato della famigerata «flessibilità» sui conti pubblici. Arroccarsi in una difesa ad oltranza di una sovranità che non abbiamo saputo esercitare in tempo non ci servirebbe a niente e ci spingerebbe inevitabilmente nel doloroso abbraccio della troika



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