“Tregua a Gaza, questa volta durerà” Il Cairo trova l’accordo Hamas-Israele

GERUSALEMME. L’accordo arriva al tramonto del cinquantesimo giorno di guerra. Israeliani e palestinesi siglano una tregua “permanente”, alle sette della sera le armi tacciono, le frontiere sono pronte a riaprire e il sanguinoso conflitto che ha sconvolto l’estate di Israele e Gaza sembra finalmente placarsi. Ci sono volute sette settimane di guerra vera e di instabili cessate-il-fuoco (tutti e undici violati da Hamas), ci sono voluti 4.450 razzi sparati dalla Striscia e 5.526 bombe sganciate dai caccia di Gerusalemme su Gaza, ci sono voluti purtroppo oltre duemila morti palestinesi (2.126 l’ultimo calcolo aggiornato, tra cui oltre 400 bambini) e settanta morti israeliani (cinque civili, l’ultimo poche ore prima della tregua). Tutto senza che nulla di definivo sia cambiato, se non un odio che cinquanta lunghe giornate di morte e vendette non faranno che aumentare.
All’annuncio della tregua Hamas canta vittoria. Le sette sono passate da poco, qualche ultimo razzo viene sparato ugualmente a scopo intimidatorio sui kibbutz e sulle città del sud mentre a Gaza risuonano i colpi di proiettile, ma questa volta in segno di giubilo. Gli uomini mascherati con le divise nere e verdi di Hamas sparano in aria con i kalashnikov, è già pronto — preparato chissà da quanto — il disegno-grafico da far girare sui media: «Così Gaza ha trionfato», dice il manifesto in cui tre uomini armati (uno con la divisa di Hamas, altri con divise di differenti fazioni palestinesi) catturano un soldato israeliano con la bandiera bianca alzata e una stella di David marchiata sulla schiena nuda.
Un canto di trionfo, quello di Hamas, che ha il chiaro sapore della propaganda ed è rivolto in primo luogo a quel milione e mezzo di abitanti della Striscia che sono state le vere vittime — consapevoli o costrette ad esserlo come in tanti casi di “scudi umani” — di questo lungo conflitto nella parte palestinese del campo di battaglia. Sul piano politico-diplomatico poco avrebbe da festeggiare, hanno dovuto accettare le condizioni che finora avevano rifiutato, quelle mediate dall’Egitto del nuovo alleato di Israele Al-Sisi: l’apertura dei valichi di frontiera sia dalla parte israeliana che da quella egiziana per consentire “da subito” il passaggio di aiuti umanitari e di materiale per la ricostruzione; l’estensione della zona di pesca da tre a sei miglia; il proseguimento di negoziati sugli altri punti (porto commerciale e aeroporto, come vuole Hamas, demilitarizzazione della Striscia come chiede Israele) nel giro di un mese.
Celebra una vittoria (anche personale) Abu Mazen, che come primo atto ha voluto ringraziare l’Egitto per «avere fermato l’aggressione, il bagno di sangue e l’uccisione di bambini». Era stato lui, mentre razzi di Hamas venivano lanciati ad una cadenza mai vista (150 in poche ore, uno ha raggiunto Tel Aviv), ad annunciare al mondo intero: «La leadership palestinese ha accettato l’appello dell’Egitto per una tregua permanente a partire dalle 19 di oggi». Abu Mazen si fa garante di questo cessate-il-fuoco “generale”, che ha probabilmente trattato — nel suo burrascoso colloquio in Qatar dei giorni scorsi — anche con Khaled Meshal, il capo politico di Hamas, che (almeno
fino a ieri) sembrava contrario ad ogni ipotesi di tregua. Il leader dei palestinesi ha in mente un progetto ancora più grande, quello di una «pace definitiva tra palestinesi e israeliani» e ieri sera lo ha presentato a un summit di tutte le fazioni palestinesi. Si basa sul ritorno ai confini pre 1967, difficilmente Israele (e gli Usa) potranno accettarlo.
Dovrebbe essere un giorno di festeggiamenti anche per Israele e per quelle centinaia di migliaia di persone che hanno vissuto per cinquanta giorni l’incubo delle sirene, dei “cinque maledetti secondi” necessari a raggiungere i rifugi allestiti in ogni casa. Negli ultimi tre giorni, dopo
la morte del piccolo David in un kibbutz di frontiera e prima della tregua annunciata ieri, a migliaia hanno lasciato le case nel sud. La maggioranza degli israeliani tira un sospiro di sollievo, ma non sono pochi quelli che rimproverano a Netanyahu di non aver portato a termine quello che aveva promesso, cioè la definitiva eliminazione della minaccia Hamas. Metà del “gabinetto di sicurezza” questa tregua non la voleva, il premier non ha messo la questione ai voti. Con una promessa: Israele non permetterà che a Gaza usino il cessate-il-fuoco per riorganizzarsi, riarmarsi e ricostruire i tunnel.
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