UNA VIA DI USCITA DALLA BRUTALITÀ

UNA VIA DI USCITA DALLA BRUTALITÀ

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A scuola impariamo la storia, ma non ci insegnano come leggerla. L’attuale guerra tra Israele e Gaza non solo è letta male, ma si sta ingolfando in una spirale senza uscita. Una semplice constatazione: non è mai accaduto che un territorio occupato o un popolo colonizzato siano rimasti tali in eterno. Presto o tardi i valori di libertà, giustizia e dignità prendono il sopravvento su qualunque brutalità, per potenti che siano le armi in campo. C’è stato un tempo in cui nessuno avrebbe osato immaginare un’Algeria indipendente, o un Sudafrica liberato dall’apartheid. Eppure la storia è stata più forte dell’irrazionalità e delle pretese degli uomini.
Una maggioranza di israeliani è convinta di arrivare alla pace con la forza. Ma chi anche in tempi “normali” esercita un dominio infliggendo vessazioni non può che esacerbare gli animi. In nome di un impegno sia religioso, sia nazionalista, i popoli palestinesi lottano affinché la storia renda loro giustizia. Si possono discutere i loro metodi, ma non rimproverarli perché lottano contro un’occupazione inasprita da un embargo disumano. Certo, Hamas non rappresenta tutti i palestinesi, ma se esiste è per volontà di un elettorato convinto che l’occupante non desideri la pace, e non voglia la coesistenza di due Stati.
L’Autorità palestinese ha fatto tante concessioni da ritrovarsi oggi priva di mezzi per riprendere, quanto meno, i negoziati. Israele ha il diritto di esistere e vivere in pace; ma coi suoi comportamenti ha dimostrato che il suo desiderio di pace è un’illusione; e non fa nulla per promuovere un dialogo sincero, per dare consistenza a quel miraggio. Esiste una base giuridica: la risoluzione 242 delle Nazioni Unite, legittima per tutti gli Stati, ad eccezione di Israele. Da decenni, i governi israeliani hanno sempre posto due condizioni per la definizione dello status dei territori occupati. La prima è il riconoscimento dello Stato di Israele da parte di arabi e palestinesi: una condizione ormai soddisfatta dai trattati con Egitto, Giordania e Autorità palestinese. Il suo diritto a esistere non è più in discussione. A Israele si chiede solo di riconoscere lo stesso diritto ai palestinesi. Seconda condizione: confini sicuri e riconosciuti e cessazione di ostilità. Di fatto però Israele non ha mai smesso di colonizzare i territori occupati, impedendo qualunque accordo per la coesistenza di due Stati. A Mahmud Abbas — come già a Yasser Arafat — ha rifiutato ogni concessione. Ha costruito un muro che non ha risolto nulla.
Tutto ciò spiega il successo elettorale di Hamas nella Striscia di Gaza. Proprio sull’assenza di risultati tangibili nel processo di pace Hamas ha fatto leva per riprendere l’azione armata, con i suoi attentati e attacchi inefficaci. L’intransigenza dello Stato ebraico è direttamente responsabile del potere di Hamas e del sostegno di cui gode tra la popolazione palestinese, soffocata da un embargo economico, sanitario e umano che gli osservatori del mondo — compresi i media americani — considerano inaccettabile. Israele ha in dispregio le numerose risoluzioni dell’Onu, e non c’è Stato né potenza che sia in grado di esercitare pressioni sul suo governo. Così stanno le cose. Ma chiunque si esprima criticamente su questa politica è tacciato di antisemitismo.
Alcuni intellettuali si stanno impegnando in un’operazione volta ad assimilare l’antisionismo all’antisemitismo, in una sorta di terrorismo intellettuale: è la sconfitta del pensiero, la rinuncia all’obiettività. Sono contrario alla politica coloniale di Israele, ma non per questo sono antisemita. E mi ritengo diffamato e insultato da chiunque sostenga il contrario. In Palestina, il mio paese il poeta Mahmud Darwish scrive: «L’israeliano detta al palestinese la lingua e le intenzioni che dovrebbero essere le sue. L’alibi degli israeliani — la necessità di lottare per la propria sopravvivenza — esige che l’altro sia sempre e immancabilmente un selvaggio, il cui “antisemitismo” giustificherebbe l’occupazione, così come tutte le occupazioni a venire, destinate a
consolidare quelle precedenti» (Editions de Minuit, 1988). È la débâcle del pensiero, soppiantato da un discorso passionale, colpevolizzante, manicheo.
Le immagini delle centinaia di bambini uccisi dalle bombe israeliane hanno fatto il giro del mondo, e Israele non potrà mai scrollarsi di dosso questo crimine contro l’umanità. Conosciamo la litania dei dirigenti: la responsabilità dei morti ricadrebbe su Hamas, che usa i civili come scudi mentre lancia razzi su Israele. Abbiamo appreso da un dirigente della polizia israeliana che il rapimento e l’assassinio dei tre adolescenti non è stato commesso da Hamas, ma da un gruppo estraneo al movimento. Hamas avrebbe dovuto associarsi a Mahmud Abbas nella condanna di un crimine così orrendo. Ha sbagliato. Ma quest’errore politico può giustificare ciò che Tsahal, l’esercito israeliano, sta facendo, fino a raggiungere, il 27 luglio scorso, la cifra fatidica di 1000 morti?
È normale che un cittadino francese di confessione ebraica si senta solidale con Israele; non potrei fargliene una colpa. Ma perché non ammettere che gli arabi di Francia esprimano solidarietà con un popolo colpito da bombardamenti sanguinosi? Con buona pace di Manuel Valls, questa politica di due pesi e due misure è purtroppo una realtà: e se fossi al suo posto tenderei l’orecchio per ascoltare ciò che i popoli del Maghreb dicono oggi della Francia. Politica miope, priva di una visione. Tutto ciò è sconfortante.
In un’intervista al Nouvel Observateur lo storico israeliano Zeev Sternhell ha detto che «la destra israeliana è portatrice di un disastro senza nome, che si sta abbattendo su di noi. (…) Vuole conquistare la Cisgiordania, non lo dice ma punta all’annessione. Vuole che siano gli stessi palestinesi ad accettare la propria inferiorità davanti alla potenza israeliana». La speranza — per quanto tenue — di uscire da quest’inferno verrà dall’interno di Israele, dalla sua società civile, lucida e coraggiosa.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)



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