Vivere in default

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«IN un default si sa in quali condizioni si entra, ma è molto difficile immaginare in quali se ne uscirà». Anche per i cittadini di un Paese come l’Argentina, addestrato agli shock del debito, all’inflazione e alla svalutazione della moneta, che di default ne ha già visti sette in meno di 200 anni d’indipendenza nazionale, il risveglio con lo spettro del baratro economico ieri è stato perlomeno inquieto. Tutti a Buenos Aires si aggrappano alla
convinzione, vero leitmotiv delle ultime settimane, «che non sarà come nel 2001», quando i bilanci delle famiglie uscirono demoliti dal “corralito”, il blocco nelle banche di tutti i conti correnti e dalla successiva trasformazione in moneta nazionale — i pesos — dei risparmi in dollari. «Non è vero, non siamo in default», dice la presidente Cristina Kirchner, che fin dall’inizio della battaglia legale con i fondi speculativi ha scelto il muro contro muro. Mentre il suo premier, Capitanich, punta il dito contro gli Stati Uniti, rei di consentire ad un loro giudice, l’impassibile Thomas Griesa, di rovinare per un pugno di spiccioli (un miliardo e cento milioni di euro) una nazione di 41 milioni di abitanti che ha ristrutturato al 93% un debito da 100 miliardi.
«Non sarà come il 2001»: però, già ieri, primo giorno di crisi, due sintomi rivelavano i timori. L’indice di Borsa è crollato subito (-7%) trascinando con sé altre Borse sudamericane, da San Paolo in Brasile a Santiago in Cile, con una spinta in negativo perfino su Wall Street. Ma soprattutto è diventato più caro (del 5%) acquistare dollari. Per gli argentini il valore del dollaro è un dato molto sensibile, cambia l’umore delle loro giornate. Perché è l’unico rifugio dei risparmi delle famiglie. Appena si può si cambia la moneta nazionale in valuta. Esistono due mercati di cambio: quello ufficiale, controllato e calmierato, e un altro, semi clandestino, al quale ricorrono tutti. Da mesi la banca centrale di Buenos Aires spende milioni ogni giorno per difendere il valore
della sua moneta comprando dollari e questo, a scadenze nemmeno troppo lunghe, è un ulteriore elemento di rischio: l’assottigliarsi delle riserve valutarie nazionali.
Il vero problema per gli argentini è che questo default “tecnico”, non troppo reale, quasi la beffa di un magistrato troppo pignolo, piomba su un’economia in difficoltà. Il pil argentino viaggia in recessione (-0,2%) e il Paese avrebbe bisogno di fiducia e fondi per ripartire. Quella fiducia che Thomas Griesa, dando ragione codici alla mano agli hedge fund, sta cercando di disintegrare. Gli effetti, se non si raggiunge qualche soluzione di compromesso — per oggi Griesa ha convocato nel suo ufficio a New York un nuovo incontro tra le parti — si
vedranno nel tempo. «Non è il 2001», ma il nuovo isolamento a cui il default costringe l’Argentina avrà conseguenze negative per tutti. Magari non rivedremo i cartoneros, i ragazzini scalzi che attraversavano di notte le strade della capitale frugando nei rifiuti e che divennero il simbolo internazionale della bancarotta d’inizio secolo. Né gli assalti alle banche. Né una recessione a due cifre. Tutto sarà più morbido e lento.
Negli ultimi dieci anni, fra il 2003 e l’anno scorso, l’Argentina è stata un emblema delle possibilità di rinascita dopo una crisi devastante. Trainata da un mix formato dall’auge delle materie prime nei mercati internazionali, dalla domanda cinese e da una politica economica molto nazionalista e molto autarchica (molto export e poco import), per qualcuno è diventata addirittura un modello. Crescita robusta e ridistribuzione sociale attraverso i sussidi statali: luce, gas, trasporti, famiglie numerose etc. Purtroppo è bastata una frenata nell’export (e nelle tasse sull’export che rimpinguano le casse nazionali) per mandare all’aria il sistema, molto “peronista”, che ruota sugli interventi statali. Così il futuro era già diventato incerto senza che dagli armadi della storia recente tornassero fuori gli “avvoltoi”, i proprietari di appena l’1% di Tango bond rastrellati come scommessa speculativa e pagati niente dopo l’esplosione del debito alla fine del 2001.
Già depressi dalla sconfitta al Maracanã contro la Germania ai Mondiali di calcio, gli argentini rischiano di prendersi un’altra tegola. Anche se questa potrebbe fare più male. «Nemmeno Kicillof è Messi», titolavano ieri i giornali. Kicillof, Axel, è il giovane ministro dell’Economia, un prediletto della presidente Cristina, che ha negoziato fino alla fine una via d’uscita onorevole. Ma che, come Messi in finale, non è riuscito a fare il Messi pallone d’oro. Ora, come fanno Cristina Kirchner e il premier Capitanich, si può chiedere al Paese un altro sussulto di nazionalismo e accusare «l’imperialismo» statunitense di volere la rovina della terza economia del Sudamerica. La verità è che i conti erano già malmessi prima. Che Griesa, il giudice, e Singer, “l’avvoltoio”, stanno solo strappando il velo. Nel modo peggiore. Cosa c’è dietro il velo l’Argentina lo scoprirà nei prossimi mesi, vivendo in default.



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