Cina, per i corrotti divieto di suicidio «Vi puniremo anche da morti»

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PECHINO Il titolo dell’editoriale è feroce: «La morte non dev’essere una via di scampo». L’articolista comincia osservando che il mestiere di funzionario pubblico in Cina è diventato rischioso e subito cita il caso dell’ex segretario del partito in un distretto di Nanchino che il 18 settembre si è impiccato a casa; l’8 settembre il vice capo del Pcc di Hohhot, capitale della regione autonoma della Mongolia Interna, si era chiuso in ufficio, seduto alla scrivania e si era tagliato i polsi. I due politici erano indagati per corruzione. Sono almeno trenta i suicidi di funzionari cinesi finiti nelle pagine di cronaca dall’inizio dell’anno per essersi tolti la vita mentre gli uomini della Commissione di disciplina chiudevano il cerchio intorno a loro. Un tasso che secondo studi locali è superiore del 30% almeno alla media nazionale dei suicidi in Cina.
Ed ecco l’editoriale che invoca: «Bisogna adottare misure per bloccare le vie di fuga giudiziarie per i corrotti che cercano di evitare la punizione con il suicidio». La firma è della professoressa Lin Zhe della Scuola centrale del partito comunista: il pensiero del regime.
Il ragionamento è clinico: i suicidi dei dirigenti corrotti causano gravi perdite agli sforzi contro la corruzione, perché una larga parte dei guadagni illeciti non vengono recuperati con la confisca. Quindi, il suicidio può essere un sotterfugio per lasciare in eredità alla famiglia le tangenti e le ruberie. La signora Lin Zhe ricorda come la legge cinese preveda la fine del procedimento in caso di morte dell’indagato e aggiunge che nella cultura cinese c’è quella sorta di rispetto per i morti che impedisce di parlare delle loro colpe. La richiesta dunque: una drastica correzione della procedura: se non si riesce a prevenire il suicidio, i corrotti vanno puniti anche nella tomba.
Sul piano pratico, per evitare i suicidi, la Commissione disciplina ha appena ordinato che le «stanze per le discussioni», come vengono chiamati gli ambienti per gli interrogatori (e le torture spesso), vengano ricoperti di pannelli imbottiti per evitare che i sospetti commettano atti autolesionistici.
La battaglia contro la corruzione è stata lanciata dal presidente Xi Jinping alla fine del 2012, quando è entrato in carica. Nel 2013 l’Università di Pechino ha calcolato che siano stati messi sotto inchiesta 182 mila membri del partito comunista: l’anno prima erano stati solo 10-20 mila. Non sono solo «mosche», come Xi chiama i piccoli burocrati, ma anche «tigri»: la media quest’anno è di 32 alti funzionari a settimana. L’uomo che coordina la campagna è Wang Qishan, 66 anni, capo della Commissione centrale di disciplina del partito. Ai suoi ordini c’è un esercito di 800 mila investigatori. Dicono che sia uno spettatore appassionato di House of Cards , la serie tv Usa che racconta le trame per il potere e la corruzione all’ombra della Casa Bianca.
L’editoriale che chiede di non fermarsi nemmeno davanti alla morte fa capire che a Pechino è in corso la battaglia finale per la lotta alla corruzione. Il Quotidiano del Popolo giorni fa ha avvertito che «le grandi tigri si riuniscono in bande per cercare di andare al contrattacco». Qualcuno ha invocato l’amnistia per i reati commessi prima del 2012, perché si teme che la vastità dell’operazione, le decine di migliaia di arresti e condanne, destabilizzino il partito e il Paese.
Davanti al Politburo Xi Jinping avrebbe detto: «Nessun compromesso, a costo della vita, preparate cento bare e lasciatene una per me, sono pronto a morire in questa battaglia per il futuro».
Guido Santevecchi


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