Giansenisti, i primi bersagli della «teoria del complotto»

by redazione | 16 Settembre 2014 19:27

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In principio fu Giansenio, al secolo Cornelis Jansen, vescovo belga di Ypres, che si dedicò a un’esegesi dell’opera di Agostino d’Ippona, l’Augustinus (fu pubblicato nel 1640, due anni dopo la sua morte). Tema: tutto è frutto di predestinazione, l’uomo nasce corrotto e solo la grazia di Dio può salvarlo. Tesi che furono condannate dalla Chiesa nel corso degli anni Quaranta, poi, in termini più netti, nel 1653 ad opera di papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili). Una condanna che si volle ispirata dai gesuiti, ma che non ebbe l’effetto di chiudere definitivamente il caso. Anzi, si ritorse in qualche modo contro la Chiesa e i gesuiti. È di qui che prende le mosse lo straordinario libro di Mario Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria , edito da Carocci. Un libro che, come l’altrettanto valido Il giansenismo in Italia (Edizioni di Storia e Letteratura) del salesiano Pietro Stella, ripropone temi un tempo piuttosto frequentati dagli storici (da Arturo Carlo Jemolo a Ernesto Codignola, a Ettore Passerin d’Entrèves, ad Arnaldo Momigliano, a Carmelo Caristia e Francesco Margiotta Broglio, a Carlo Fantappiè) e oggi alquanto trascurati.
A rendere universale la dottrina giansenista fu il grande successo delle Lettres provinciales di Blaise Pascal (1656-57) scritte a stretto contatto con il monastero cistercense di Port-Royal, centrale dell’agostinismo e della battaglia di Antoine Arnauld contro i gesuiti (l’abbazia verrà chiusa e rasa al suolo nel 1710 per ordine di Luigi XIV). Ai tempi di Clemente IX (Giulio Rospigliosi), i giansenisti erano stati sostanzialmente riabilitati con la cosiddetta «pace clementina» (1669). I loro argomenti servivano per la lotta sempre più dura contro la Compagnia di Gesù e non ci si poteva permettere di relegare il clero francese e olandese, profondamente permeato dalle tesi del vescovo di Ypres, ai margini della Chiesa. Ma successivamente le cose cambiarono nuovamente. All’inizio del Settecento fu la volta delle rivoluzionarie Réflexions morales del francese Pasquier Quesnel, che guadagnarono al giansenismo molte simpatie, ma anche una seconda pesante condanna contenuta nella bolla di Clemente XI Unigenitus (1713). La bolla, scrive Rosa, verrà a costituire «da un lato un documento fondamentale intorno al quale ruoterà pro o contro tanta parte delle discussioni e delle vicende politico-religiose settecentesche, e dall’altro un elemento di forte coesione di un fronte variegato, rigorista, giansenista, anticuriale, antigesuita, che nonostante le divisioni interne mantenutesi nel tempo, fu in grado di elaborare uno sforzo comune contro l’unico obiettivo del gesuitismo». Alla Compagnia di Gesù fu imputato «di essere stata di fatto ispiratrice della condanna e di rappresentare, sul piano ecclesiale e politico-ecclesiastico, quegli orientamenti gerarchici, verticisti e autoritari romani imposti dal Papato alla Chiesa cattolica nel suo recente sviluppo storico; orientamenti ai quali il giansenismo andava sempre più contrapponendo le proprie concezioni ecclesiologiche, alimentate dallo spirito comunitario dei vescovi, dei parroci e dei semplici fedeli, come l’opera di Quesnel stava largamente a dimostrare».
Se la Unigenitus non suscitò nella penisola, nell’immediato, discussioni e reazioni esplicite, come avverrà immediatamente in Francia — con il rifiuto di registrazione della bolla da parte del Parlamento di Parigi e con l’appello da parte di alcuni vescovi, quelli di Montpellier, di Mirepoix, di Senez e di Boulogne, e di ampie fasce del clero secolare e regolare a un futuro concilio generale — «fu perché diversi Stati italiani, preoccupati da possibili ripercussioni sulle loro strutture politiche e a livello religioso ed ecclesiastico, o come si diceva sulla “quiete” interna, all’indomani dei difficili anni che seguirono la guerra di Successione spagnola, diedero un tacito assenso alla sua diffusione, come a Milano, o consentirono, come a Napoli e in Sicilia, adesioni da parte di singoli vescovi; oppure, infine, come in Toscana, nel Regno di Sardegna e a Venezia non concessero l’exequatur al documento».
Ci fu in quell’occasione chi, come il giurista fiorentino Antonio Niccolini, escogitò una soluzione intermedia tra Chiesa e giansenismo. Di fronte alle polemiche provocate dalla bolla di condanna dell’opera di Quesnel e alla dannosa frattura apertasi nella Chiesa, Niccolini da un lato negò alla Unigenitus il carattere di regola di fede, come avrebbe voluto il «partito curiale», dall’altro respinse il rifiuto totale della bolla secondo gli orientamenti sempre più rigidi dello schieramento gallicano-giansenista francese. La proposta era quella di dar vita a un «terzo partito» che mediasse tra i due di cui si è appena detto. Una espressione, questa di «terzo partito», che, osserva Mario Rosa, «non ha trovato facile accoglienza come categoria in sede storiografica, ma che, rintracciabile nel linguaggio del tempo, anche da parte dei giansenisti romani e toscani degli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento, potrebbe essere accolta e utilizzata non nel senso che intenda definire un vero e proprio gruppo organizzato, ma quale tendenza e aspirazione diffusa, volte a riportare tra le opposte intransigenze la pace nella Chiesa, e a porre in prospettiva, come lo stesso Niccolini indica nel suo parere, con forte carica utopica, la convocazione di un concilio generale per la dottrina, la “polizia” e l’edificazione della Chiesa cattolica».
Le cose cambiarono ancora a metà Settecento, all’epoca di Benedetto XIV (Prospero Lambertini), che coltivò rapporti di amicizia con Ludovico Antonio Muratori e di stima nei confronti di Scipione Maffei, i quali, pur non potendo essere classificati come giansenisti, furono convinti «agostiniani» e si impegnarono nell’offensiva contro i gesuiti. Ed è a questo passaggio che dedica grande attenzione il libro. Mario Rosa attribuisce molta importanza al periodico fiorentino «Novelle letterarie» diretto da Giovanni Lami e ispirato da papa Lambertini, che — con l’appoggio degli agostiniani Fulgenzio Bellelli e Gianlorenzo Berti, nonché del cardinale Enrico Noris — si concentrerà in una vera e propria campagna contro due importanti gesuiti: Jean Pichon e Isaac-Joseph Berruyer. Né Bellelli, né Berti, né Lami, né tantomeno il cardinale Noris erano giansenisti. E però il clima culturale da loro creato (per conto, presumibilmente di papa Benedetto XIV) favorì una grande diffusione del giansenismo nella sua accezione toscana (ad opera del vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci, un grande del giansenismo italiano), in quella monastica e spirituale dell’area lombardo veneziana, in quelle ligure, napoletana e siciliana «con i suoi lieviti antigesuitici e illuministici». «Caratteri cangianti», li definisce Rosa. Che Eustachio Degola, un personaggio importantissimo del giansenismo ligure, in una lettera del 1791 al preposito della collegiata di Livorno, il giansenista Agostino Baldovinetti, descriveva alla stregua di «un vero prisma che, a difetto di essere tanto diafano da non poterne fissare la vera idea, ossia natura, nonostante è capace di figurare in tutti gli aspetti, variar tinte e colori».
In cosa consisteva il fulcro del giansenismo per quel che riguarda la vita della Chiesa? Nell’esaltazione dell’autonomia dei vescovi dalla Curia di Roma e dell’istituzione parrocchiale quale centro del rinnovamento della vita religiosa. A metà Settecento partì dalla Chiesa di Roma un’offensiva volta a contrastare l’influenza di questa proposta cosiddetta «parrochista». I gesuiti, che conoscevano una stagione di difficoltà — stavano per essere espulsi dal Portogallo, dalla Francia, dalla Spagna prima di essere sciolti nel 1773 da Clemente XIV con il breve Dominus ac Redemptor —, si offrirono per la parte più aggressiva della campagna contro i giansenisti, loro nemici da sempre. Ai gesuiti, scrive Mario Rosa, «spetterà l’ultimo colpo, almeno in questa fase di polemiche, quasi a suggellare momentaneamente l’asprezza dello scontro: un colpo destinato a lunga vita e a riproporsi sotto altra luce sino alla fine del secolo e oltre, improntando l’orientamento di vasti settori del cattolicesimo, dai vertici della Chiesa a una media e diffusa opinione, nei confronti del giansenismo e degli avvenimenti rivoluzionari, nonché più in generale nei confronti del mondo moderno». Stiamo parlando dell’invenzione della teoria del complotto. Nel 1755 con La réalité du projet de Bourg-Fontaine , il gesuita Henri-Michel Sauvage «sulla base di falsi e di una documentazione discutibile», darà corpo alla leggenda nera di una macchinazione di Giansenio, Saint-Cyran e altri giansenisti per giungere alla distruzione della Chiesa. Diffuso nell’originale e pubblicato più volte in traduzione italiana, lo scritto, ripreso nei decenni successivi da molti gesuiti, verrà utilizzato non solo in chiave antigiansenista. Negli anni successivi, quelli della denuncia della cosiddetta congiura dei philosophes contro la Chiesa, il testo di Sauvage «porterà all’elaborazione della tesi politico religiosa di una generale “cospirazione” dei giansenisti, degli illuministi e dei massoni radicali, di cui si farà interprete, nel contesto del pensiero controrivoluzionario, un altro ex gesuita: Augustin Barruel». La teoria del complotto fa molti proseliti. Ma i giansenisti escono rafforzati dallo scontro con i gesuiti ormai soccombenti. Nel quindicennio che va dalla scomparsa di Benedetto XIV (1758) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773) hanno la forza e gli appoggi politici per tentare di imporre una riforma giansenistica all’intera Chiesa: «L’attenzione dedicata alla figura del vescovo e a quella del parroco, alla centralità della parrocchia, alla formazione del clero e alla pratica religiosa dei fedeli attraverso l’istruzione», scrive Mario Rosa, si congiunge con «le riforme liturgiche e devozionali — improntate, queste ultime, da austerità e chiarezza —, la riforma della musica sacra, alleggerita dalla pompa barocca, la predicazione resa più semplice nei suoi richiami al dettaglio evangelico, i catechismi, la lettura della Bibbia e di testi patristici nonché quel nugolo di traduzioni e di adattamenti di scritti, scelti soprattutto nell’ambito del giansenismo francese e tra autori di intensa spiritualità come Quesnel e Jacques-Joseph Duguet, che più di altri a partire da questi anni, vengono posti tra le mani di ecclesiastici e laici dell’intera Penisola italiana».
Verso la fine del Settecento il nostro giansenismo andò differenziandosi da quello francese: quest’ultimo fu ribelle alla monarchia e alla sua involuzione assolutistica (trovando appoggio nei Parlamenti e nelle magistrature civili del regno), mentre quello italiano «ravvisò per le sue aspirazioni di riforma religiosa, sostanziali punti di riferimento nella sacralità della figura dei sovrani, e specialmente di quelli della casa d’Asburgo, a giustificazione degli interventi politico-ecclesiastici dell’assolutismo illuminato». In particolare in Toscana dove — grande protagonista Scipione de’ Ricci — si ebbe «un’alleanza non sempre facile tra il sovrano e il “suo” vescovo, che punterà su una riforma giansenista della Chiesa locale attraverso lo sviluppo di una “democrazia ecclesiastica” parrochista e di una politica sinodale episcopale». Ricci introdusse a Pistoia l’uso del volgare in alcune devozioni, come aveva fatto con alcune preghiere il precedente vescovo di Pistoia (anch’egli «giansenisteggiante») Giuseppe Ippoliti. La traduzione della scrittura in volgare, alla quale si opponeva la regola IV dell’Indice tridentino (1564) promulgato da Pio IV. Quel Pio IV che aveva consentito in un primo tempo la traduzione e la lettura della Bibbia nelle lingue vernacolari, con una disposizione che era stata però annullata nel 1596 dall’Indice promulgato da Clemente VIII. Grande partigiano dell’uso del volgare nelle funzioni religiose era stato il giansenista Quesnel. Non è un caso, osserva Rosa, che per dare vigore alla battaglia contro i giansenisti, il gesuita napoletano Domenico Viva abbia polemizzato sin da subito contro Quesnel, esaltando «la funzione unificatrice del latino di contro ai rischi di traduzioni imprecise e del loro uso improvvido e incontrollato». Ancor più complesso, ricostruisce Rosa, era stato «il tentativo di diffondere in una lingua vernacolare un testo liturgico come il Messale, del quale si era approntata una traduzione francese, quella di Joseph de Voisin (1660), immediatamente condannata sia in Francia sia da Roma: un tentativo non più ripreso, neppure dopo le prudenti sollecitazioni espresse dal giansenista Nicolas Le Tourneux». Perché si riaprisse, nel contesto italiano, una discussione sull’argomento si sarebbe dovuto attendere il 1740 con la pubblicazione delle Annotazioni sopra le feste di Nostro Signore e della Beatissima Vergine e del Santo Sagrifizio della Messa di Benedetto XIV, o, per meglio dire, di Prospero Lambertini che aveva scritto il testo poco prima di diventare Papa e darlo ugualmente alle stampe. Annotazioni che, pur nella difesa del latino, contenevano una significativa apertura all’uso del volgare. Fu quel Papa ad autorizzare il futuro arcivescovo di Firenze Antonio Martini a tradurre in italiano la Bibbia. E sarà poi Scipione de’ Ricci a raccomandare la lettura della Bibbia nella versione di Martini (in una lettera pastorale dell’11 aprile 1783) nella quale si raccomandava anche la raccolta o la composizione di «buone e divote canzoni in lingua volgare», «mezzo utilissimo per civilizzare i popoli e renderli non meno buoni cristiani che fedeli sudditi». Il tutto a sostituire progressivamente la «corrotta musica ecclesiastica». Al fondo della catechesi giansenista, c’era, secondo Mario Rosa, qualcosa di più della pur essenziale esigenza di una diversa formazione religiosa; «v’era lo sforzo largo e coerente di sottrarre i fedeli laici alla loro passività e di renderli membri attivi di una Chiesa rinnovata». Come? Attraverso «la partecipazione comunitaria al sacrificio della messa con l’ausilio di “dichiarazioni” in italiano e tramite la conoscenza, continuamente proposta anche nelle cerimonie e nei riti, di passi della Scrittura e di testimonianze di Padri della Chiesa, tradotti, rielaborati o compendiati in volgare».
In virtù dell’influenza di Scipione de’ Ricci, i giansenisti ebbero dalla loro anche un sovrano: Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana dal 1765 al 1790, nonché fratello di Giuseppe II, imperatore d’Austria. Il riformismo leopoldino — al quale si deve tra l’altro la prima accettazione dei principi di Cesare Beccaria con l’abolizione della pena di morte — fu un faro per tutta l’Europa. Fu lui che aprì alla democrazia dei parroci, anche se con minore forza della coeva sperimentazione francese. Ma l’esperimento, nonostante la nobiltà dell’intento, è destinata a fallire. Perché? Secondo Rosa, «il parrochismo ricciano-leopoldino resta un tentativo di vertice, destinato a dissolversi, salvo sporadici fermenti residui, una volta scomparse le condizioni che ne avevano consentito una incipiente configurazione». L’intera riforma leopoldina approdò al sinodo di Pistoia (1786) attorno al quale «si giocò in modo emblematico la partita definitiva del giansenismo italiano». E siamo «al punto più oscuro, e insieme più drammatico, del tentativo ricciano-leopoldino di riforma ecclesiastico religiosa», durante il quale «si svolge dietro le quinte un febbrile gioco politico». Il 5 dicembre 1786 Pietro Leopoldo scrive al fratello Giuseppe II, per sollecitarlo a profittare della lotta intorno alla nunziatura di Germania e della crisi politico-religiosa del momento per la convocazione di un concilio nazionale tedesco. Ma l’imperatore risponde con un rifiuto. «Venendo a mancare definitivamente la possibilità di creare una comune intesa asburgica antiromana, non restava al granduca che procedere autonomamente lungo la linea intrapresa». Cade un progetto di convocazione di un concilio nazionale e cade contemporaneamente un progetto di riforma della Chiesa toscana presentato dal Ricci anche se era stato elaborato da un altro importante giansenista, Vincenzo Palmieri.
In realtà, scrive Mario Rosa, «una vera alternativa per una riforma giansenista della Chiesa toscana non esisteva, pur nei risultati che le riforme leopoldine raggiunsero riguardo alle istituzioni ecclesiastiche e al nuovo e diverso inserimento della Chiesa e delle sue espressioni religiose nella società». V’erano tuttavia nel movimento «reali impulsi di riforma religiosa contro la cristallizzazione esteriore, romana, come si diceva, del cattolicesimo». C’era «la tensione a riscattare, anche con mezzi politici, facendo appello all’intervento del sovrano, le compromissioni mondane del cattolicesimo, come apparivano configurate in una società e in un momento storico che denunziavano imminente la crisi». C’era «l’intento di ravvivare la vita del clero e dei fedeli mediante il richiamo ad elementi storici obiettivi, ma rivissuti come idea forza e lievito di riforma, che erano la Chiesa primitiva e i suoi antichi canoni, la sua disciplina, le sue antiche riunioni sinodali e conciliari, di recuperare cioè momenti della tradizione che parevano, se non perduti, attenuati». Ma la Chiesa di Roma disse no. Spirava il vento del 1789 e papa Pio VI non poteva permettersi compromissioni con quel mondo che preparava la rivoluzione.
Il sinodo subirà una condanna da parte di Roma nel 1794. Di lì a due anni, nel 1796, con la discesa in Italia di Napoleone Bonaparte, inizierà da noi il triennio rivoluzionario che riporterà in vita alcune istanze della Rivoluzione francese. Nel frattempo, nel 1791, Scipione de’ Ricci — poco prima di dimettersi da vescovo di Pistoia e Prato — si era pronunciato a favore della costituzione civile del clero voluta dall’Assemblea nazionale rivoluzionaria in Francia (immediatamente condannata da Pio VI) e aveva attribuito carattere di legittimità nonché «di obbligatorietà» al giuramento richiesto al clero francese. Ma su questo i giansenisti italiani si divisero. Se per Reginaldo Tanzini quello francese era «un passo fondamentale nella prosecuzione delle riforme», per il ligure Paolo Marcello Del Mare l’Assemblea rivoluzionaria di Parigi aveva avuto «l’ardire» di costituirsi a «despota della Chiesa» e perciò quella decisione andava contrastata. Altri avevano aderito all’esperienza rivoluzionaria importata da Napoleone nella Penisola nel triennio di cui si è detto (1796-1799). Già prima, nel 1794, Luigi Cuccagni, direttore del «Giornale ecclesiastico» di Roma, aveva scritto un articolo assai violento contro i giansenisti, accomunandoli, vecchi e nuovi, a massoni, atei, deisti, calvinisti e definendo il loro operato alla stregua di una partecipazione alla «congiura» dei giacobini. Alla vigilia del triennio rivoluzionario anche il giansenista Pietro Tamburini denuncerà gli accadimenti di Francia come esito di una cospirazione. Salvo poi unirsi, come il ligure Eustachio Degola, al moto rivoluzionario. E come lui, Gaetano Giudici, Francesco Alpruni, anche se, osserva Rosa, parteciparono come singole personalità e «non si può parlare in senso unitario di una “politica democratica” giansenista». A questo punto, in ogni caso, tra giansenisti e Chiesa di Roma la rottura sarà definitiva. E il suggello a questa rottura la darà nel 1814 Pio VII, consentendo la ricostituzione della Compagnia di Gesù. Anche se gesuiti e giansenisti non saranno mai più quello che erano stati nel Seicento e nel Settecento.
Che cosa resta del giansenismo? Non v’è dubbio, secondo Rosa, che il giansenismo fu «in grado di provocare attraverso il dibattito religioso un’attiva partecipazione al corso riformatore settecentesco e di permeare un atteggiamento complessivo delle classi dirigenti italiane, creando un linguaggio comune delle élite, dalla Lombardia alla Sicilia, pur con tutte le inevitabili differenze». Poi quando il giansenismo italiano si legò strettamente agli eventi della sua epoca, «subì uno scacco e si vanificò, perdendo una progettualità politica, ma rimanendo come fatto culturale, etico e come progetto religioso e si inserì in una vena di liberalismo, da Alessandro Manzoni a Bettino Ricasoli, a Gino Capponi ad Antonio Rosmini di cui sarebbero da misurare aspetti specifici, tensioni ed esiti». Un giansenista ligure seguace di Degola, Luca Descalzi, sarà precettore di Giuseppe Mazzini e manterrà rapporti con sua madre Maria Drago. Così il giansenismo potrà sopravvivere in Italia grazie all’influenza che avrà avuto su intellettuali e politici di prima grandezza. E giungere sino ai tempi nostri, prendendosi qualche clamorosa rivincita nella seconda metà del Novecento.

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