Le idee sul capitalismo

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L’economia è una disci­plina che non pro­gre­di­sce col pas­sare del tempo, o per lo meno non pro­gre­di­sce nel senso in cui pro­gre­di­scono la fisica e la medi­cina, che via via incor­po­rano e siste­mano le teo­rie pre­ce­denti dopo averle emen­date dei loro errori e alla luce di nuovi risul­tati sostanziali.

Esi­stono invece e coe­si­stono molte teo­rie rivali, che si dispu­tano l’egemonia cul­tu­rale e poli­tica; e la teo­ria neo­clas­sica – in forme nuove e inge­gnose ma ridon­danti – è ancora oggi la teo­ria domi­nante nella pro­fes­sione, nell’opinione comune e comu­nis­sima, seb­bene nel corso del Nove­cento a essa siano state mosse due cri­ti­che radi­cali, da parte di J.M. Key­nes (1883–1946) e di P. Sraffa (1898–1983).

Si badi bene che tale ege­mo­nia della teo­ria neo­clas­sica, pres­so­ché asso­luta nell’Accademia, non lo è tra i poli­cy­ma­kers più avver­titi, che di fronte ai pro­blemi pra­tici si lasciano talora ispi­rare dalle teo­rie ete­ro­dosse.
Nella sto­ria eco­no­mica dell’Italia se ne tro­vano molti esempi.

La teo­ria ege­mone ci rap­pre­senta il sistema eco­no­mico come un sistema in cui l’homo oeco­no­mi­cus prende le deci­sioni sul futuro in con­di­zioni di cer­tezza e di cono­scenza illi­mi­tata, in cui le crisi sono degli acci­denti e non la norma, e in cui vi è armo­nia nella distri­bu­zione del pro­dotto sociale.

Nelle scelte di poli­tica eco­no­mica la con­se­guenza di una simile visione del mondo è la dot­trina del laissez-faire.

Credo che anche il let­tore comune giu­di­cherà que­sta visione piut­to­sto con­so­la­to­ria che non rea­li­stica, e nelle pagine che seguono intendo con­for­tarlo nel giu­di­zio pre­sen­tan­do­gli le teo­rie alter­na­tive, del tutto rispet­ta­bili e non meno robu­ste di quella neo­clas­sica, di quat­tro autori che tutti pos­sono dirsi clas­sici: Ricardo, Marx, Key­nes e Sraffa (…). Ora que­sti quat­tro autori ci descri­vono il sistema eco­no­mico in cui viviamo, che è un sistema sto­ri­ca­mente deter­mi­nato: il capitalismo, come un sistema in cui la distri­bu­zione del pro­dotto sociale tra le classi è mate­ria di con­flitto; in cui la norma è la crisi e non l’equilibrio; e in cui gli agenti pren­dono le loro deci­sioni in con­di­zioni di incer­tezza e sulla base di una cono­scenza limi­tata. Così che un inter­vento dello Stato sarà neces­sa­rio se si vogliono almeno medi­care i difetti della società eco­no­mica in cui viviamo: sopra tutti la disoc­cu­pa­zione e una distri­bu­zione arbi­tra­ria e ine­guale della ric­chezza e dei red­diti (Gior­gio Lun­ghini, Con­flitto, crisi, incer­tezza. Bol­lati Borin­ghieri, 2012, pp. 12–14).

Per quanto riguarda il livello dell’occupazione, Key­nes dimo­stra come esso non sia uni­vo­ca­mente deter­mi­nato dall’operare con­giunto sul mer­cato del lavoro delle due fun­zioni di domanda e di offerta, così come afferma la teo­ria neo­clas­sica, bensì da altre forze che agi­scono su altri mer­cati (mer­cati della moneta, dei capi­tali, dei beni). In par­ti­co­lare non vi sarebbe neces­sa­ria­mente una rela­zione inversa tra il sala­rio e l’occupazione: una dimi­nu­zione del sala­rio potrebbe anche non essere una con­di­zione suf­fi­ciente per gene­rare un aumento dell’occupazione (…).

La Teo­ria gene­rale si può ridurre a que­sta pro­po­si­zione: l’occupazione è quella che i capi­ta­li­sti deci­dono di dare, secondo le loro aspet­ta­tive. Secondo lo stesso Key­nes, “La teo­ria si può rias­su­mere dicendo che, data la psi­co­lo­gia della gente, il livello della pro­du­zione e dell’occupazione com­ples­siva dipende dall’ammontare dell’investimento”.

Al cen­tro del ragio­na­mento di Key­nes sta l’idea che noi, nella realtà, abbiamo sol­tanto una per­ce­zione molto vaga delle con­se­guenze non imme­diate dei nostri atti. La nostra cono­scenza, in gene­rale e anche per quanto riguarda le deci­sioni eco­no­mi­che più impor­tanti, è una “cono­scenza incerta” (…). Il fatto che la nostra cono­scenza sia incerta ha dun­que come con­se­guenza prin­ci­pale la fra­gi­lità, la pre­ca­rietà dell’equilibrio del sistema (pp.87–89). Per Key­nes in ogni situa­zione data vi è un unico livello di occu­pa­zione com­pa­ti­bile con l’equilibrio, e tale equi­li­brio è sta­bile anche se l’occupazione non è piena. A ciò basta che la domanda aggre­gata sia uguale all’offerta aggre­gata. Quest’analisi ci for­ni­sce, secondo Key­nes, una spie­ga­zione del para­dosso della povertà nel bel mezzo dell’abbondanza: “E’ carat­te­ri­stica saliente del sistema eco­no­mico in cui viviamo che, men­tre è sog­getto a flut­tua­zioni severe per quanto riguarda la pro­du­zione e l’occupazione, esso non è vio­len­te­mente insta­bile. In effetti esso sem­bra capace di per­ma­nere in una con­di­zione cro­nica di atti­vità sub­nor­male per un periodo con­si­de­re­vole, senza una ten­denza mar­cata né verso la ripresa né verso il col­lasso” (p.98–99).

Che cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se dav­vero si con­di­vide il giu­di­zio che la disoc­cu­pa­zione e l’ineguaglianza sono dei mali da gua­rire? Secondo que­sto Key­nes si dovreb­bero fare tre cose (…), redi­stri­bu­zione della ric­chezza e del red­dito, euta­na­sia del ren­tier, e una socia­liz­za­zione di una certa ampiezza dell’investimento (pp. 106–108).



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