Missioni lampo (e poche armi) La fanteria siriana degli Usa
GAZIANTEP (Turchia meridionale) Eccole le potenziali «fanterie» della coalizione internazionale contro lo Stato islamico in Siria. Sulla carta contano «decine di migliaia di uomini» e a parole vantano grandi vittorie sia contro la dittatura di Damasco che contro le brigate dei jihadisti tagliagole. In verità, da ormai quasi due anni sono in ritirata su tutti i fronti. I loro leader più importanti si sono rifugiati nelle cittadine turche lungo il confine. In Siria entrano ed escono solo per operazioni lampo. Ad Antakya e nella vicina Reyhanl, posta proprio sulla frontiera, abbiamo incontrato alcuni militanti delle brigate, che pure sino a un anno fa operavano armati nelle province siriane di Idlib e Ariha, abbruttite di tedio (con pochi centesimi in tasca) nei caffè del centro e negli appartamenti semivuoti in cui passano il tempo a fumare i narghilè. Salim Idriss, lo storico ex comandante dell’Esercito siriano libero (c’è guerra per la sua successione), la formazione militare ribelle che a Washington viene indicata come l’asse portante delle eventuali «truppe di terra alleate», ieri era in missione nella zona di Aleppo. «Stiamo valutando come coordinarci con i comandi della coalizione americana. Si parla di andare ad addestrarci in Arabia Saudita», dicono i suoi aiutanti.
A Gaziantep parliamo con Yaser Zakri, leader della Coalizione nazionale, il gruppo che vorrebbe giocare da rappresentante politico della rivoluzione iniziata nel 2011. E le sue parole sono chiare: «Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero sapere da tempo che il nostro nemico principale resta la dittatura di Bashar Assad. Non siamo affatto contrari ai bombardamenti contro i terroristi dell’Isis. Ma prima di tutto va colpito l’esercito di Damasco. Se ciò non avviene, il rischio è che i raid tornino a legittimare lo Stato islamico agli occhi dei siriani. In questa luce vanno lette le decine di manifestazioni contro i raid che si sono tenute negli ultimi due giorni nelle regioni della nostra rivoluzione». È della stessa idea Abu Mohammad Alhalabi, portavoce dello «Jesh al Mujaheddin», un gruppo che raccoglie otto brigate attive tra Aleppo e il confine. «Il 25 settembre ad Antakya ci siamo incontrati con due membri del Congresso americano, Adam Kinzinger e George Holding. Erano venuti a indagare sulla nostra disponibilità a combattere sotto l’ombrello dei raid aerei. Noi abbiamo risposto che saremo ben contenti di farlo, ma solo se vengono attaccate anche le truppe criminali del terrorista Assad. Se non lo vogliono fare, almeno ci devono equipaggiare con buone armi anticarro e antiaeree». A loro dire ci sono altre tre brigate pronte a cooperare subito alle stesse condizioni: Hazem, Nureddin Zanki, Jabhet Suwar Suria (in tutto circa 10.000 uomini). E di queste almeno due stanno già ricevendo dal Pentagono aiuti per l’addestramento e buone armi anticarro. Ma quanti sono in tutto i ribelli «moderati» che detestano lo Stato islamico? «Tanti, decine di migliaia, forse oltre 50.000. Ma l’Occidente deve comprendere la nostra diffidenza. Per oltre tre anni nessuno ha mosso un dito mentre Assad ci massacrava. E, adesso, poiché tagliano la testa a tre occidentali voi intervenite. Come minimo dovete darci le armi per difenderci, altrimenti è meglio che resti lo Stato islamico», replicano all’unisono. «Dateci il modo di sconfiggere Assad, che è stato all’origine della deriva violenta della nostra rivoluzione. Poi saremo noi stessi a battere lo Stato islamico», aggiungono. Ieri l’aviazione Usa ha distrutto alcuni blindati dello Stato islamico attorno all’aeroporto di Deir Ezzor. E loro lo prendono ad esempio del problema: «Adesso Assad occuperà la zona. Chi ci aiuterà a batterlo?».
Detto questo, non hanno nulla in contrario a che la coalizione internazionale si allarghi. Nelle ultime ore Belgio e Olanda hanno promesso l’invio di 6 caccia F-16 ciascuno, ai quali se ne aggiungono 7 dalla Danimarca. Dopo la scelta di Obama l’anno scorso di rinunciare alle operazioni contro Damasco, i ribelli siriani restano diffidenti delle mosse americane e sono contenti che partecipino altri Paesi. Accolgono invece a braccia aperte le ultime dichiarazioni al quotidiano Hurriyet del presidente turco Erdogan circa la necessità di avviare «operazioni di terra» per garantire «zone di sicurezza» lungo il confine. «Lo chiediamo da anni. È necessario, soprattutto per garantire la sicurezza dei nostri civili. Occorre organizzare un’area protetta nella Siria settentrionale, come le no fly zone che nel 1991 difesero i curdi da Saddam Hussein nel nord Iraq».
Lorenzo Cremonesi
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