Il Regno resta Unito la promessa di Cameron “Sarà super devolution”
EDIMBURGO . Rovesciando la celebre massima del “Gattopardo”, il no all’indipendenza della Scozia nel referendum di giovedì sembra non cambiare niente per cambiare invece tutto, o almeno molto. Il Regno Unito non si disunisce, ma avvia una super devolution che promette di trasformarne l’assetto costituzionale. La Scozia non diventa indipendente, ma conquista più autonomia di quanta ne abbia mai avuta in 300 anni e il suo primo ministro Alex Salmond si dimette a sorpresa, convinto che occorra un altro leader per «continuare il sogno e arrivare in cima alla montagna ». David Cameron salva l’unità nazionale e il proprio posto di premier britannico, che avrebbe quasi sicuramente perso in caso di sconfitta, ma viene travolto da accuse da ogni parte, inclusi i propri compagni di partito. Solo la regina Elisabetta veglia immutabile sul proprio polo, auspicando “mutuo rispetto” tra vincitori e vinti del referendum in nome del “comune amore per la Scozia”.
La netta vittoria dei no, 55 a 45 per cento, è il risultato auspicato dal governo e dai partiti di Londra, dalle banche e dal grande business della City, dall’Unione Europea, da Barack Obama, praticamente da tutti, tranne che da poco meno di metà degli scozzesi e dai movimenti separatisti di mezzo continente convenuti su Edimburgo nella speranza di festeggiare il secessionismo, prima nella terra di Braveheart e in seguito nella propria. Quando nella notte tra giovedì e venerdì si è capito che l’indipendenza non ce l’avrebbe fatta hanno tirato in tanti un sospiro di sollievo, che nelle ore successive si è riflesso nella squillante ascesa della sterlina e della Borsa sui mercati internazionali. Ma poco dopo l’alba Cameron appare davanti al portone di Downing street e cominciano i segnali che la mancata secessione della Scozia, pur scongiurando un terremoto, non produce il mantenimento dello status quo.
«Insieme siamo migliori che separati», dice il primo ministro celebrando la vittoria del no, la questione dell’indipendenza «è risolta», cioè archiviata, «per almeno una generazione», ma quanto è accaduto deve ispirare «una devolution di maggiori poteri », come lo stesso leader conservatore ha promesso alla Scozia per scongiurarne la secessione negli ultimi giorni di campagna referendaria, quando temeva di perdere. Ma non solo in Scozia: il premier parla di «nuovo assetto costituzionale» per il proprio paese, poiché «così come il popolo scozzese avrà più poteri sulle proprie questioni, altrettanto deve avvenire per le altre regioni del Regno Unito, il Galles, l’Irlanda del nord e anche l’Inghilterra », l’unica a non avere avuto un parlamento regionale separato e distinto nella devolution varata da Blair a fine anni Novanta. Cameron non intende dargliene uno: la sua ipotesi è far votare solo i deputati inglesi di Westminster sulle questioni che riguardano la sola Inghilterra. E’ abbastanza, tuttavia, per scatenare le polemiche.
Ed Miliband, leader del Labour, che in Inghilterra è oggi largamente minoritario, chiede di meno: «Sì a fare subito la devolution per la Scozia, no a una devolution per l’Inghilterra», insorge preoccupato di non contare più nulla fra gli inglesi. Nigel Farage, leader dell’Ukip, il partito populista che ha vinto le recenti elezioni europee, chiede di più: «E’ tempo di dare un parlamento anche all’Inghilterra», dove l’Ukip ha la sua base di consensi. E tra i Tories sale la rivolta contro Cameron, accusato di avere rischiato di distruggere la Gran Bretagna e poi in preda al panico avere offerto troppo alla Scozia: promesse “azzardate” lo attacca l’ambizioso sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson, che scalpita per prendere il suo posto a Downing street. «Oggi è morto il Regno Unito come lo conoscevamo», taglia corto il primo ministro del governo autonomo del Galles, Carwyn Jones, «siamo quattro nazioni che devono sedersi a un tavolo e trattare, non possiamo più andare avanti così». Perfino più di quattro, in teoria: pure la Cornovaglia, nel sud dell’Inghilterra, ora pretende autonomia e un’assemblea legislativa.
Poi, nel pomeriggio, è Alex Salmond, il premier indipendentista scozzese, ad annunciare un altro cambiamento inatteso: le proprie dimissioni. «Sono orgoglioso del cammino che abbiamo fatto in questi anni, la Scozia ha ottenuto più poteri e Londra dovrà mantenere le sue promesse», dichiara in tivù, teso, stanco, emozionato, «ma il mio tempo come leader è concluso, credo che serva un altro per proseguire la marcia e arrivare in cima alla montagna. La nostra campagna continua, il nostro sogno non morirà mai». Lascerà l’incarico a novembre al congresso annuale dello Scottish National Party, il partito di cui è stato a capo per vent’anni, guidandolo da forza inesistente alla maggioranza assoluta. Avrebbe tranquillamente potuto restare in carica sino alla fine del suo se- condo mandato nel 2016, invece ha voluto dimostrare che non è attaccato al potere e forse è rimasto davvero bruciato da una sconfitta a cui non credeva. Se ne va un formidabile uomo politico, il cui aspetto bonario di condottiero con la pancetta celava un carisma e un’abilità eccezionali. Tra i candidati a rimpiazzarlo c’è Nicola Sturgeon, la attuale vice-premier.
«Restiamo uniti, la maggioranza silenziosa ha reso possibile la vittoria», si rallegra il Times di Londra. «La Scozia vota no, ma il Regno Unito cambia per sempre », precisa l’Herald di Edimburgo. A sera giungono dal suo castello scozzese di Balmoral, dove è ancora in vacanza, le parole della Regina Elisabetta: «Sono certa che gli scozzesi si uniranno in uno spirito di mutuo rispetto. Avere opinioni diverse è nella natura della nostra robusta tradizione democratica, ma ci accomuna tutti un duraturo amore per la Scozia». Su un altro castello, a Edimburgo, la bandiera blu con croce bianca un tempo sventolata da Braveheart è invisibile, arrotolata al pennone in mancanza di vento; ma dalla torre che domina la città si intravede un panorama mutato rispetto ad appena 24 ore prima. In Gran Bretagna non è cambiato niente, parafrasando il Gattopardo, eppure è cambiato tutto.
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