Da Telecom alla Ntv il lungo declino del capitalismo italiano senza soldi e senza idee

by redazione | 3 Settembre 2014 17:25

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ROMA . «Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto», ripeteva con insospettabile umorismo Enrico Cuccia, mentre Bruno Visentini, serioso, invocava schumpeterianamente «la forza virile dell’imprenditore ». Ma mai come oggi carestia di pecunia e di vis imprenditoriale afflissero di più l’Italia, a giudicare dalle cupe cronache marziane del colonizzando capitalismo nazionale. L’ultima è di ieri: la grande sfida antimonopolistica dell’alta velocità ferroviaria, progetto lanciato otto anni fa con NTV (Nuovo Trasporto Viaggiatori), rischia di deragliare tra 156 milioni di perdite in due anni e 781 milioni di debiti. Ed è solo l’ultimo (per ora) grano di un rosario (quello delle preghiere ne ha 59) che, andando a ritroso, allinea una lista penitenziale dell’italico capitalismo che sembra non finire più tra aziende in crisi, marchi prestigiosi venduti all’estero e pietre degli scandali: da Alitalia a Telecom Italia, da Merloni Indesit a Loro Piana e Bulgari, da Sai Ligresti (per stare al fronte delinquenziale) a Riva, solo per citare i casi più noti.
«Non è un’avventura per deboli di cuore», disse Luca Montezemolo della creatura ferroviaria partorita con Diego Della Valle, che doveva celebrare le magnifiche sorti e progressive della neonata concorrenza privata nella patria del pubblico e dell’assistito. Ma di lì a poco cominciò a denunciare l’arroganza dell’ex monopolista, il capo delle Ferrovie dello Stato Mauro Moretti, che giocava «come arbitro e allenatore dell’altra squadra». E, come d’uopo, a stigmatizzare l’insolvenza della politica, peraltro rappresentata oggi dal ministro Federica Guidi, ex vicepresidente della Confindustria, colpevole di non aver confermato le agevolazioni tariffarie elettriche nate nel lontano 1963, all’epoca della nazionalizzazione, taglio che aggraverà NTV di qualche decina di milioni. Sacrosante alcune lamentele. Eppure, qualche dubbio sulla gestione della società privata mitica testa d’ariete contro i monopoli pubblici cominciò timidamente ad affiorare, ad esempio, quando fu affidata a quell’Antonello Perricone che in Rcs-Corriere della Sera soprannominarono “l’uomo del buco” per la sciagurata e testardamente perseguita acquisizione della spagnola Recoletos, che provocò una voragine di oltre un miliardo. Ma si sa, molti dei capitalisti italiani hanno nella politica l’amante preferita e, al tempo stesso, il capro espiatorio designato da sacrificare per qualsivoglia nefandezza, a cominciare dalle loro.
Prendete le geremiadi degli ultimi due giorni d’agosto del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, mentre gli imprenditori suoi autorevoli soci fuggivano a gambe levate da Telecom Italia, una delle ultime grandi imprese nazionali, incassando la “disfatta del Paloma”, dal nome dello yacht di Vincent Bollorè a bordo del quale il capitalismo italiano ha preso l’ultimo (“y final”?) meritato insulto. Nello stesso giorno, l’inclito Squinzi pontificava nei pressi di quei campioni imprenditoriali di Cl e sussidiaria Compagnia delle Opere che «serve una politica che ci governi», che «bisogna avere una visione non punitiva verso le imprese, una visione contro la cultura anti-impresa». Giusto. Ma mai, nelle ripetitive geremiadi squinziane, si è colto un sia pur vago accenno al neghittoso capitalismo italiano, sfarinatosi fortunatamente dopo la mistica dei “salotti buoni”, ma comunque totalmente incapace di visione, di progetti credibili e parco non tanto e non solo di capitali, ma di capacità e di voglia di investirli.
Al governo in carica, con l’unico beneficio del tempo stretto, si possono già attribuire non pochi errori, ma il pulpito confindustriale con la sua ex sedicente “ala nobile” è il meno titolato per farlo. Telecom ne è la prova conclamata: «Neanche Superman — ha scritto il professore Salvatore Bragantini — riuscirebbe a tirar fuori Telecom dalla buca in cui i soci l’hanno ficcata!». In un destino che viene da lontanissimo. Da quando Roberto Colaninno la scalò senza avere i soldi. Di lì iniziò il declino del gruppo telefonico, perfezionato da Marco Tronchetti Provera, che continuò a drenare risorse. Fino, nei giorni scorsi, alla “disfatta del Paloma”, che vedremo tra poco dove ci porterà. Magari verso Berlusconi, che, notoriamente, con la politica non si mischia. Del resto, non erano tutti autorevoli confindustriali i nobili cavalieri coraggiosi che avallarono con un po’ di soldi ciascuno la follia berlusconiana dell’italianità dell’Alitalia, sottraendola ai francesi per suoi personali scopi elettorali, che è costata a tutti noi italiani 5 o 6 miliardi di euro? Se ricordiamo bene, in quel coraggioso manipolo di capitalisti assai bisognosi di favori dal governo Berlusconi c’erano, con l’allora banchiere Corrado Passera, il quale oggi mette su un partito che già dal nome (“Italia Unica”) rivela la possibile consistenza elettorale, la Marcegaglia,
Tronchetti Provera, Riva, Caltagirone, Benetton, insomma mezza Confindustria.
Dietro il capitalismo italiano «c’è la famiglia», dice ispirato negli stucchevoli speach agostani il presidente Squinzi. Dovrebbe confortarci. Ma quale famiglia? Se parliamo di imprese di buone dimensioni, i fondi internazionali ormai controllano il 38 per cento della Borsa di Milano, mentre le famiglie del capitalismo si scannano al loro interno. Vedi i Caprotti, vedi anche i Merloni, i Marzotto — chessò — i Berlusconi e tanti altri più piccoli. Per fortuna poi, c’è qualche rara grande impresa che va ancora bene, come la Luxottica di Leonardo Del Vecchio, “Mister 20 miliardi di dollari”. Ma siamo sicuri che anche lì non sia in corso una partita familiare, che può aver portato al licenziamento (45 milioni di “addolcimento”) dell’amministratore delegato Andrea Guerra per sostituirgli un triumvirato, una governance un po’ barocca? D’Altra parte, questi campioni del capitalismo italico sono un po’ ondivaghi, per usare un linguaggio forbito. Sapete che cosa ha detto ieri Leonardo Del Vecchio a Fabio Tamburini sul Corriere della sera ? «Oggi, secondo me, lo Stato avrebbe bisogno di coordinare le grandi aziende che ancora controlla. Un istituto com’era l’Iri di una volta». Insomma, la politica è di puzzoni, ma in fondo lo Stato in economia non era tanto male.
Claudio Magris non sarà magari tra le anime più serenamente ottimiste della terra. Ma viene da non dargli torto quando scrive: «Il grande capitalismo dei tronfi ed inetti signori del mondo sempre più anonimi e scissi dalla dura realtà del lavoro, è spesso largamente, talvolta criminosamente colpevole della crisi». Analisi universale. Figurarsi quella nostrana.

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