“Appeso al soffitto a testa in giù” Torture, conversioni forzate la vita e l’orrore degli ostaggi rinchiusi nelle prigioni dell’Is

by redazione | 27 Ottobre 2014 10:56

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GLI ostaggi venivano portati fuori dalla cella separatamente. In una stanza, i carcerieri gli ponevano tre domande personali, espediente classico per fornire la prova che un prigioniero è ancora in vita durante le trattative per il riscatto. James Foley tornò nella cella che spartiva con una ventina di altri ostaggi occidentali e scoppiò in lacrime per la gioia. Le domande erano così personali («Chi ha pianto alle nozze di tuo fratello?») che aveva capito che finalmente erano in contatto con la sua famiglia. Era il dicembre del 2013 ed era passato più di un anno da quando Foley, giornalista freelance quarantenne, era scomparso lungo una strada della Siria settentrionale. Finalmente i suoi genitori avrebbero saputo che era vivo, disse ai suoi compagni di prigionia. Ma quello che sembrava un punto di svolta in realtà fu l’inizio di una spirale discendente che si concluse ad agosto con la decapitazione di Foley di fronte a una telecamera.
La storia di quello che è successo nei sotterranei usati come prigioni in Siria è una storia di atroci sofferenze. Foley e gli altri ostaggi venivano regolarmente picchiati e sottoposti alla tortura del waterboarding. La loro prigionia ha coinciso con l’ascesa di un gruppo diventato noto come lo Stato islamico (Is), emerso dal caos della guerra civile siriana. L’organizzazione non esisteva ancora il giorno in cui Foley fu rapito, ma è cresciuta pian piano fino a diventare il movimento armato più potente e temuto della regione. A due anni dall’inizio della prigionia di Foley, l’Is aveva accumulato oltre una ventina di ostaggi ed elaborato una strategia per chiedere un riscatto in cambio della loro liberazione.
È stato a questo punto che il percorso degli ostaggi, fino a quel momento molto simile, ha preso strade diverse a seconda di decisioni prese a migliaia di chilometri di distanza. Foley era uno dei 23 ostaggi occidentali nelle mani del-l’Is, provenienti da 12 Paesi diversi e in maggioranza cittadini di nazioni europee che tradizionalmente pagano per far liberare i loro cittadini.
La loro lotta per la sopravvivenza, che ora viene raccontata per la prima volta, è stata ricostruita sulla base di interviste con cinque ex ostaggi, abitanti del posto, con parenti e colleghi dei prigionieri e con una ristrettissima cerchia di consulenti che si sono recati nella regione per cercare di ottenere il loro rilascio. Alcuni particolari di cruciale importanza sono stati confermati da un ex membro dell’Is inizialmente assegnato alla prigione in cui era detenuto Foley.
LA CATTURA
A Binesh, in Siria, due anni fa, Foley e il suo compagno di viaggio, il fotogiornalista inglese John Cantlie, entrarono in un Internet cafè per archiviare i loro pezzi. Mentre stavano caricando le immagini entrò un uomo. «Aveva una grossa barba», ha detto Mustafa Ali, il loro interprete siriano. «Ci guardò con occhi cattivi, andò al computer e ci rimase solo un minuto». Dopo più di un’ora, Foley, che lavorava per Global Post e Afp , e Cantlie, un fotografo per diversi quotidiani inglesi, fermarono un tassì per farsi riaccompagnare in Turchia. Non arrivarono mai al confine. Gli uomini armati che inseguirono il tassì non si definivano militanti dell’Is, perché quel giorno, il 22 novembre del 2012, l’organizzazione ancora non esisteva, ma il pericolo dell’estremismo islamico era già palpabile.
Nei 14 mesi successivi, almeno 23 stranieri, in maggioranza giornalisti freelance e operatori umanitari, caddero in imboscate simili. Nel giugno del 2013 furono rapiti quattro giornalisti francesi, il 4 agosto fu sequestrato Steven Sotloff, un giornalista freelance americano. A settembre i guerriglieri catturarono tre giornalisti spagnoli. I posti di blocco erano diventati reti da pesca per esseri umani: a ottobre, un gruppo di guerriglieri aspettava a uno di questi checkpoint Peter Kassig, 25 anni, un paramedico di Indianapolis. A dicembre Alan Henning, un tassista inglese, sparì a un altro. Gli ultimi a scomparire furono cinque operatori di Medici Senza Frontiere, catturati a gennaio nell’ospedale da campo dove lavoravano.
L’INTERROGATORIO
Sotloff e il suo interprete siriano, Abobaker, furono portati in uno stabilimento tessile in un villaggio vicino ad Aleppo e qui vennero messi in due celle distinte. Abobaker, che fu liberato due settimane dopo, sentì i loro rapitori portare Sotloff in una stanza adiacente. Poi sentì l’uomo che lo interrogava, un arabofono, dire in inglese “Password”. Era una procedura che avrebbero ripetuto con molti altri ostaggi. I sequestratori confiscavano i computer, i cellulari e le videocamere, e chiedevano le password per accedere ai loro account. Passavano al setaccio i loro profili di Facebook, le conversazioni su Skype, gli archivi di immagini e le caselle di posta elettronica, cercando prove di collusione con organismi d’ intelligence e forze armate di Paesi occidentali.
«Mi portarono in un edificio destinato appositamente agli interrogatori», ha raccontato Marcin Suder, fotogiornalista polacco di 37 anni, rapito nel luglio del 2013 a Saraqib in Siria. È passato per le mani di diversi gruppi prima di riuscire a scappare quattro mesi dopo. Suder ha sottolineato il vocabolario tipicamente inglese che usavano gli uomini che conducevano gli interrogatori. In uno di questi, continuavano a dirgli che era stato naughty ( cattivo, birichino) e anche altri ostaggi hanno detto che i loro carcerieri usavano questa parola durante le torture più brutali. Naturalmente è stato nel corso di uno di questi interrogatori che i jihadisti hanno trovato, sul portatile di Foley, immagini di militari americani scattate durante i suoi soggiorni in Afghanistan e in Iraq. Un ostaggio britannico, David Haines, fu costretto ad ammettere di aver servito nell’esercito in passato: era scritto sul suo profilo LinkedIn. I miliziani scoprirono anche che Kassig, il paramedico dell’Indiana, era stato nelle truppe d’assalto dell’esercito americano e aveva combattuto in Iraq. La punizione per ogni presunto reato era la tortura.
«Si vedevano le cicatrici sulle sue caviglie», ha raccontato il 19nne Jejoen Bontinck, un belga convertito all’Islam che nell’estate del 2013 passò tre settimane nella stessa cella di Foley. «Mi disse che gli avevano incatenato i piedi a una sbarra e che avevano appeso la sbarra al soffitto, lasciandolo a testa in giù». Bontinck ha detto che Foley e Cantlie inizialmente erano stati catturati dal Fronte Al Nusra, organizzazione affiliata ad Al Qaeda. I loro carcerieri, un terzetto anglofono che avevano soprannominato i “Beatles”, sembravano provare piacere a torturarli. Successivamente erano stati ceduti al gruppo Consiglio della Shura dei Mujaheddin guidato da militanti di lingua francese. Foley e Cantlie passarono di mano in mano almeno tre volte, prima di essere trasferiti in una prigione situata sotto l’ospedale pediatrico di Aleppo. Fu lì che Bontinck, che all’epoca aveva 18 anni, incontrò Foley. Bontinck inizialmente era un combattente occidentale in seguito entrato in contrasto con il suo gruppo e accusato di essere una spia. I miliziani lo trascinarono in una stanza seminterrata. Dentro c’erano due stranieri magrissimi e con la barba: Foley e Cantlie.
UN AMERICANO DI NOME HAMZA
Foley si convertì all’islam poco dopo la sua cattura e adottò il nome di Abu Hamza, ha raccontato Bontinck. Secondo i racconti degli ex ostaggi, la maggior parte dei prigionieri occidentali si era convertita, durante la prigionia. Si era convertito anche Kassig, che aveva adottato il nome di Abdul Rahman. Solo pochi erano rimasti fedeli alla loro vera religione: fra questi Sotloff, ebreo praticante. I prigionieri rilasciati recentemente hanno detto che la maggior parte delle conversioni era avvenuta sotto coercizione, ma che Foley era realmente affascinato dall’Islam. I suoi primi carcerieri del Fronte Al Nusra vedevano con sospetto la sua fede islamica, ma il secondo gruppo ne era rimasto colpito: le violenze nei suoi confronti erano cessate; a differenza dei prigionieri siriani, che venivano incatenati ai termosifoni, Foley e Cantlie potevano muoversi liberamente per la cella.
Bontinck ebbe l’occasione di domandare all’emiro del carcere, un cittadino olandese, se i guerriglieri avessero chiesto un riscatto per gli stranieri. L’uomo gli aveva risposto di no. «Mi spiegò che c’era un Piano A e un Piano B». I giornalisti sarebbero stati tenuti agli arresti oppure li avrebbero mandati come coscritti in un campo di addestramento per jihadisti. Sia l’uno che l’altro scenario lasciavano intendere che il gruppo avesse in programma di rilasciarli. Quando Bontinck fu rilasciato, se ne andò convinto che i giornalisti sarebbero stati presto liberati, come lui.
UNO STATO TERRORISTA
La guerra civile siriana stava cambiando e il nuovo gruppo estremista aveva assunto una posizione dominante. A un certo punto, l’anno scorso, il battaglione dell’ospedale di Aleppo giurò fedeltà all’organizzazione all’epoca denominata Stato islamico di Iraq e del Levante. Altre fazioni di combattenti si unirono all’Is. Più tardi, sempre nel 2013, i jihadisti cominciarono a radunare i vari prigionieri nello stesso posto, sotto all’ospedale di Aleppo. A gennaio c’erano almeno 19 uomini in una cella di 20 metri quadrati e quattro donne in una cella adiacente. Tutti i prigionieri, tranne uno, erano europei o nordamericani. Ora ogni prigioniero era ammanettato a un altro. I carcerieri francofoni erano stati sostituiti da anglofoni. Foley li riconobbe con terrore: erano quelli che lo chiamavano naughty durante le peggiori torture; erano quelli che gli ostaggi chiamavano i Beatles. Quando si avvicinarono alla cella in cui stava Suder, dissero ad alta voce arba’in, “quaranta” in arabo. A molti degli ostaggi erano stati assegnati numeri: sembrava un modo per catalogarli, simile in qualche modo ai numeri che i militari americani assegnavano ai detenuti nelle loro prigioni in Iraq, tra cui Camp Bucca, dove era stato incarcerato per breve tempo Abu Bakr al-Baghdadi, il leader dell’Is. I jihadisti erano passati a governare quello che loro definivano uno Stato. Questa ossessione per l’ordine si estendeva agli ostaggi. Dopo mesi che li tenevano prigionieri senza fare richieste, improvvisamente elaborarono un piano per ottenere un riscatto. A partire dal novembre dello scorso anno, chiesero a ogni prigioniero di fornire l’indirizzo email di un parente.
LA CERNITA
A dicembre i militanti avevano già scambiato diverse email con la famiglia di Foley e di altri ostaggi. Man mano che le settimane passavano, Foley notò che i compagni di cella europei venivano chiamati fuori ripetutamente. Lui invece no. E nemmeno gli altri americani e gli inglesi. Ben presto i prigionieri si resero conto che i loro rapitori avevano capito quali erano le nazioni che più probabilmente avrebbero pagato. «Stabilirono un ordine in base alla facilità con cui pensavano di poter negoziare», ha detto un ex ostaggio. «Cominciarono con gli spagnoli». Proseguirono con i quattro francesi. Dopo le domande personali, i prigionieri europei passarono a girare dei video sempre più drammatici, con minacce di morte e ultimatum per l’esecuzione. A un certo punto i carcerieri arrivarono con una serie di tute arancioni. In un video misero in fila gli ostaggi francesi con le divise che scimmiottavano quelle indossate dai prigionieri di Guantánamo. Cominciarono anche a praticare su alcuni ostaggi il waterboarding, come avevano fatto gli agenti della Cia con detenuti musulmani.
Progressivamente i 23 prigionieri furono divisi in due gruppi. I tre americani e i tre britannici erano quelli sottoposti alle violenze peggiori, per il risentimento dei miliziani verso i loro Paesi e perché i loro governi non volevano trattare. All’interno di questo sottogruppo, Foley subì il trattamento più crudele. Le condizioni di prigionia diventavano sempre più dure. Per un lungo periodo gli ostaggi ricevettero l’equivalente di una tazza di cibo al giorno. Passavano settimane nell’oscurità. Non avevano materassi e c’erano poche coperte. Cominciarono a scoppiare litigi fra gli ostaggi. Foley spartiva con gli altri le sue magre razioni. Nel freddo dell’inverno siriano, offrì a un altro prigioniero la sua unica coperta. Intratteneva gli altri proponendo giochi e attività: ricostruivano film che avevano visto, raccontandoli scena per scena; e ognuno teneva lezioni su argomenti che conosceva bene.
GLI ULTIMATUM PER L’ESECUZIONE
Nella primavera di quest’anno, gli ostaggi furono trasferiti dai sotterranei dell’ospedale di Aleppo a Raqqa, la capitale dell’autoproclamato califfato. Li misero in un edificio vicino a un’installazione petrolifera, e di nuovo li divisero per sesso. A marzo i miliziani avevano concluso le trattative per i tre giornalisti spagnoli. Ad aprile quasi la metà dei prigionieri era stata liberata. Nessun passo avanti era stato fatto, invece, per gli ostaggi americani e britannici. Durante la cernita i carcerieri avevano stabilito che l’unico ostaggio russo, Sergej Gorbunov, era il “prodotto” meno smerciabile. A un certo punto vennero a prenderlo, lo trascinarono fuori e gli spararono. Filmarono il suo cadavere e mostrarono la ripresa agli ostaggi sopravvissuti. «Questo», dissero, «è quello che vi succederà se il vostro governo non pagherà».
GLI ADDII
Foley stette a guardare i suoi compagni di cella che venivano rilasciati a intervalli di circa due settimane. Man mano che il numero di persone nei 20 metri quadri della cella di Raqqa si riduceva, conservare la speranza diventava sempre più difficile. Il 27 maggio i pochi ostaggi rimasti videro che un passaporto diverso significava un destino diverso. A giugno erano rimasti solo sette prigionieri: quattro americani e tre britannici, tutti di Paesi i cui governi avevano rifiutato di pagare il riscatto. Quindici ostaggi sono stati liberati fra marzo e giugno, in cambio di riscatti superiori, in media, a 2 milioni di euro. Ad agosto, quando i miliziani sono venuti a prendere Foley, gli hanno fatto infilare un paio di infradito di plastica e lo hanno portato in macchina su una collina spoglia, fuori Raqqa. Lo hanno fatto inginocchiare. Lui ha guardato dritto in camera, con espressione di sfida. Poi gli hanno tagliato la gola. Due settimane dopo, è stato pubblicato il video dell’esecuzione di Sotloff, a settembre quella di Haines. A ottobre è stato assassinato Henning. Rimangono solo tre uomini dei 23 originari: due americani, Kassig e una donna di cui non si conosce il nome, e un inglese, Cantlie. I miliziani hanno annunciato che il prossimo a essere ucciso sarà Kassig.
Da un capo all’altro dell’Europa, gli ostaggi sopravvissuti sono rimasti senza fiato quando hanno visto le immagini della morte del loro compagno di cella: quelle infradito di plastica beige da quattro soldi stese accanto al cadavere di Foley erano le stesse che tutti mettevano per andare al bagno. I sopravvissuti avevano camminato nelle stesse scarpe di chi non ce l’ha fatta.

© 2-014 The New York Times. Traduzione di Fabio Galimberti

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