Cottarelli: «Non mi davano neanche i documenti Le resistenze dei burocrati a Roma»

by redazione | 17 Ottobre 2014 8:46

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È un cremonese con una faccia americana. Oppure un americano con l’accento cremonese. Carlo Cottarelli, classe 1954. Dal 1988 è a Washington DC presso il Fondo monetario internazionale (Fmi). Nel 2008 è direttore del dipartimento affari fiscali. Nel 2013 viene chiamato in Italia da Enrico Letta per rivedere — leggi: tagliare — la spesa pubblica. Commissario per la Spending review. Incarico: tre anni. Ne è passato uno e Cottarelli torna al Fmi come direttore esecutivo per l’Italia.
Solo nostalgia di Washington DC, oppure si è scocciato?
«Nostalgia di Washington, quella c’è. Anche perché la famiglia è rimasta lì. E fare il pendolare transatlantico non è semplice. Ma c’è dell’altro. Quando mi hanno contattato, dovevo venire per un anno. Poi abbiamo detto “Facciamo tre, e dopo un anno vediamo la situazione…”. Ecco, dopo un anno mi sembra che la parte principale del mio lavoro possa dirsi completata».
Com’è stato questo anno italiano? Non mi risponda in cremonese «Püsé che bèn, mia maàl…» (più che bene, non male).
« (ride) Un anno pesante. La mattina spesso mi chiedevo: “Che ci faccio qui?” Poi durante la giornata passava. Rientrare dopo 25 anni d’America non è facile. Mi mancano il mio letto, la mia casa, i miei figli. Ventidue e vent’anni».
E il lavoro?
«È stato un lavoro diverso. Non ero parte di una struttura. Il commissario agisce come un battitore libero, il che ha dei vantaggi. Ma era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere. Non avevo un dipartimento da dirigere. Avevo qualche collaboratore, persone part time. Un pensionato della Banca d’Italia, un pensionato della Corte dei Conti…».
Un voto all’esperienza, da 1 a 10.
«Nel complesso un’esperienza positiva. Direi 8».
Le piace questa legge di Stabilità?
«È una legge molto coraggiosa. Non so se io avrei avuto questo coraggio. Va certamente nella direzione giusta, anche se non conosco ancora tutti i dettagli. Penso che l’Italia abbia bisogno di questo. Non di un’ulteriore stretta fiscale».
I tagli a carico di ministeri, Regioni ed enti locali, il tecnico Cottarelli come li definisce: lineari o no?
«Non sono lineari. Anche quando abbiamo chiesto a tutti i ministeri la stessa cosa — ridurre le spese del 3% — ognuno poi s’è fatta la propria spending review interna».
Si chiede Enrico Marro sul «Corriere», e non è il solo: davvero gli enti locali taglieranno la spesa senza rifarsi sui cittadini?
«Il rischio che le Regioni rispondano con aumenti della tassazione c’è, e su questo saranno giudicate dall’elettorato. Credo però che questa decisione caratterizzi Matteo Renzi: dare responsabilità a enti e istituzioni. In sostanza: “Noi al governo non vogliamo dirvi come farlo, siete grandi e responsabili, decidete voi”».
Ha visto spesso il presidente del Consiglio quest’anno?
«Be’, abbastanza. Non in maniera continuativa. Dopo il decreto legge degli 80 euro c’è stato un periodo in cui non ci siamo visti e ci sentivamo per posta elettronica. Negli ultimi mesi l’ho visto, credo, una decina di volte».
Differenze tra Letta e Renzi?
«Dal punto di vista delle decisioni, le cose si sono accelerate con Renzi: questo è un fatto positivo. La mia interazione con Letta era forse più profonda e analitica».
In generale chi l’ha aiutata di più?
«Ho lavorato strettamente con i ministri dell’Economia: Saccomanni e Padoan. Quando c’era un intoppo mi rivolgevo a loro».
Chi le ha opposto più resistenza?
«Una cosa che mi ha reso molto difficile il lavoro — a parte le difficoltà politiche di fronteggiare certi temi, ma quelle ci stanno — è stato il mondo burocratico romano».
Un po’ vago…
«Allora diciamo: il sistema dei capi di gabinetto, ecco. Si conoscono tutti tra loro, parlano tutti lo stesso linguaggio. E i capi degli uffici legislativi: hanno in mano tutto e scrivono leggi lunghissime (ride) , difficilmente leggibili. Costituiscono un gruppo omogeneo, in cui è difficile entrare, con cui è difficile interagire. Spesso molti documenti non mi venivano dati. Non per cattiva intenzione, ma perché non facevo parte della struttura. Dopo una, due, tre settimane venivo a sapere le cose. Questa è stata un’enorme difficoltà».
La cosa più assurda? Quella che racconterà ai suoi nipoti?
«Una è legata alle auto blu, che come sa sono un mio pallino. Quando ho discusso col ministero della Difesa dell’opportunità che alcuni ufficiali superiori rinunciassero all’auto di servizio, ho scoperto che esiste un regolamento dell’Esercito e della Marina, ma non dell’Aviazione, che impedisce ai militari in divisa di andare in giro con l’ombrello. Non potendosi bagnare, devono prendere l’auto. Ecco, questa cosa mi è sembrata veramente un po’ strana».
Non male. Me ne dica un’altra.
«I commessi. Molti, oggi, non hanno un vero lavoro da svolgere, stanno seduti alla scrivania nei corridoi ministeriali. Una volta mi hanno spiegato perché questi enormi corridoi non possano essere ristretti, razionalizzando gli spazi. Per la presenza dei suddetti commessi, che stanno lì a fare niente».
Alla voce «sinergie corpi di polizia» lei proponeva risparmi per 2,5 miliardi nel biennio 2016-18. Renzi sembrava darle ragione. Invece, niente.
«La riforma dei corpi di polizia sta nella legge delega sulla riforma della Pubblica amministrazione. Il percorso scelto è stato questo, non so per quale motivo. Ed è un percorso lento».
Tre miliardi in tre anni sarebbero dovuti arrivare dalle cosiddette «pensioni d’oro». Si dice che per questo sia entrato in crisi il suo rapporto con Renzi. Riproporrebbe oggi una misura così impopolare?
«È chiaro che c’è stata la scelta politica di non incidere sulle pensioni. Il ruolo del commissario è avanzare proposte. E io non potevo non farlo in un’area, le pensioni, che tocca i 270 miliardi. È una cifra semplicemente troppo grossa per ignorarla».
Quando ci siamo conosciuti, lei era stato appena nominato. Mi ha dato un biglietto da visita con un errore di ortografia: «Comisario per la Spending review», una sola «s». Altri errori nei suoi confronti?
« (ride) Il senso di esclusione, di non far parte di una struttura. Ho avuto momenti di grande collaborazione, per esempio dalla Ragioneria generale dello Stato. Resta un fatto: per errore o per altri motivi, molto spesso i documenti non mi arrivavano».
L’incarico professionale più difficile della sua vita?
«Questo in Italia. E quando ho fatto il capo della missione Fmi in Turchia con una crisi economica profonda, sotto attacco speculativo».
La figura del commissario per la Spending review serve ancora? Dopo Giarda, Bondi e Cottarelli ne arriverà un altro?
«Non credo che avrò un successore. Dopo un periodo di spinta, che penso di aver dato, quest’attività deve rientrare nell’amministrazione».
Renzi in pubblico ha detto un paio di volte «Decido io, non Cottarelli!», o qualcosa del genere. Che sentimenti provava?
«Solidarietà. Mi mettevo nei suoi panni: il presidente del Consiglio che sente “Cottarelli di qui, Cottarelli di là….”. Mi sarei stufato anch’io. Renzi ripeteva una cosa logica: le decisioni sono della politica».
Cremona, Roma, Washington DC. Quale sceglie per qualità della vita?
«Cremona è al top, poi Washington, poi Roma».
Sessant’anni è un compleanno complicato?
«Boh, li ho compiuti in agosto. Non ci ho proprio pensato».
Non è che tra un po’ la ritroviamo in Italia, come componente della troika del Fondo monetario?
«Spero di no! Non credo che l’Italia avrà bisogno di chiedere un prestito al Fondo monetario».
La riconoscono, adesso, per strada?
«Sì, e mi dicono “Cottarelli vada avanti!”. Ogni volta mi stupisco. Credevo che, facendo questo lavoro, avrei ricevuto più insulti».

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