Guerra ai “mostri”, una vera passione

Guerra ai “mostri”, una vera passione

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Sulle prime si sarebbe ten­tati di dichia­rarsi d’accordo. Se da una parte c’è il Male, il fronte che gli si oppone, molto ampio e quasi una­nime, deve rap­pre­sen­tare il Bene. Quella con­tro l’Isis sem­bra per eccel­lenza la guerra giu­sta che vanno cer­cando da sem­pre gli sco­la­stici di tutte le scuole. I memento seriosi pro­nun­ciati dai grandi della Terra nelle com­me­mo­ra­zioni del 1914 sono stati dimen­ti­cati troppo pre­sto. Sola­mente la Chiesa cat­to­lica resta ferma all’immagine dell’«inutile strage»: a Redi­pu­glia il papa, che aveva in mente anche Medio Oriente e Ucraina, ha defi­nito la guerra «una follia».

Obama e il jiha­di­smo sono pro­ta­go­ni­sti in pro­prio di una poli­tica rela­ti­va­mente defi­nita, ancor­ché con le con­suete cen­sure, per esem­pio sugli effetti dei raids ame­ri­cani fra le popo­la­zioni civili di Siria, Iraq o Yemen. Nell’insieme delle rela­zioni eco­no­mi­che e poli­ti­che inter­na­zio­nali di medio e lungo periodo essi sono però poco più che epifenomeni.

Non si può par­tire dalla pro­cla­ma­zione del Calif­fato fra Tigri e Eufrate facendo finta che non ci siano stati il rias­setto dei rap­porti inter­na­zio­nali dopo la fine del bipo­la­ri­smo, il Libano, i Bal­cani, le Torri gemelle e l’Afghanistan, la guerra del 2003. Gli eco­no­mi­sti cono­scono bene le con­trad­di­zioni fra le diverse fami­glie della finanza e i con­flitti che accom­pa­gnano il tra­pianto del capi­ta­li­smo in Peri­fe­ria. Come ha scritto Henry Kis­sin­ger, il pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione, den­tro un sistema ispi­rato «quasi esclu­si­va­mente ai prin­cipi fon­danti delle società occi­den­tali, (…) sca­tena una rea­zione poli­tica che spesso fini­sce con l’ostacolare le sue aspirazioni».

Gli esperti di stra­te­gia sanno quanto l’industria mili­tare abbia biso­gno di spe­ri­men­tare e inno­vare. Molti vedono un peri­colo nel pro­po­sito ame­ri­cano di aggior­nare la tec­no­lo­gia dell’armamento nucleare (pro­ba­bil­mente in vio­la­zione del Trat­tato di non pro­li­fe­ra­zione, che pre­vede obbli­ghi anche per le potenze atomiche).

Nella guerra in Medio Oriente si riflet­tono cause remote come il declino dell’Occidente, la risco­perta della fun­zione dello stato nel Terzo mondo, la tran­si­zione dei paesi arabi dall’età del petro­lio all’economia dei ser­vizi o il pros­simo sur­plus di pro­du­zione ener­ge­tica negli Stati Uniti intorno a cui ruo­tano i nego­ziati sulla futura part­ner­ship transatlantica.

Nella guerra in Ucraina è in palio il tanto temuto (dagli Stati Uniti) rap­porto pri­vi­le­giato fra Ger­ma­nia e Rus­sia, la pos­si­bile Rapallo del Due­mila. Anche le guerre “giu­ste” rispec­chiano pre­cisi inte­ressi delle forze in campo. Gli Stati Uniti sono entrati nella seconda guerra mon­diale non per punire i cri­mini del nazi­smo ma in rispo­sta all’attacco giap­po­nese con­tro la flotta di base a Pearl Har­bour. Obama, per avvi­ci­narsi alla nuova guerra in Medio Oriente, e ren­derla oltre che accet­ta­bile anche ine­vi­ta­bile, ha evo­cato i «nostri inte­ressi» e la sal­va­guar­dia dei «nostri con­na­zio­nali» che a vario titolo sono rima­sti a pre­si­diare l’Iraq mal­grado il tanto sban­die­rato ritiro nel 2011. Se mai è lecito dubi­tare, come scrive giu­sta­mente Lucio Carac­ciolo, che sia utile seguire il copione pre­vi­sto dal califfo.

Quando Obama o Hol­lande, ma anche il nostro governo e i com­men­ta­tori di casa nostra, dicono che davanti a una situa­zione ogget­ti­va­mente grave o gra­vis­sima «si deve fare qual­cosa» inten­dono imman­ca­bil­mente «qual­cosa di mili­tare». Dispiace che Ser­gio Romano, di solito così lucido e indi­pen­dente que­sta volta si sia ada­giato sulla let­tura più sem­pli­fi­cata dell’oggi e di ciò che si vede o si narra tra­scu­rando l’ieri e il nasco­sto. In una con­ver­sa­zione sulla poli­tica estera degli Stati Uniti pub­bli­cata di recente, Noam Chom­sly insi­ste sull’importanza che in essa rive­ste la “segre­tezza”, per non sve­larne subito e pub­bli­ca­mente i secondi fini e i lati bui (l’asilo con­cesso da Putin a Sno­w­den è uno dei capi d’accusa più pesanti che la Casa Bianca ha messo in conto al “nuovo zar”).

Il pre­si­dente ame­ri­cano, insi­gnito di un Nobel per la pace, non per­dona a Putin di averlo bloc­cato men­tre erano già accesi i motori dei bom­bar­dieri con desti­na­zione Dama­sco. Con quella ini­zia­tiva, la prima diplo­ma­tica invece che bel­lica a memo­ria d’uomo, la Rus­sia si sin­to­nizzò sulla lun­ghezza d’onda di un sen­ti­mento molto dif­fuso nel mondo. Obama, già in dif­fi­coltà con il suo Con­gresso, ne uscì umi­liato.
For­mal­mente i pre­si­denti ame­ri­cani par­lano alla nazione ma in realtà si rivol­gono all’universo mondo. Obama non intende certo cedere que­sta pre­ro­ga­tiva o anche solo con­di­vi­derla con un paese a cui gli Stati Uniti non man­cano mai di ricor­dare che ha perso la guerra (fredda). E infatti quello che fu il vallo difen­sivo pre­teso da Sta­lin per il con­tri­buto dato dall’Urss alla vit­to­ria con­tro Hitler sta diven­tando l’avamposto, alla fron­tiera della Rus­sia, per tenere sotto scacco il padrone del Cremlino.

Obama ha fretta di dimo­strare di essere all’altezza del suo com­pito di gen­darme di un certo “ordine” a livello mon­diale. Può rime­diare final­mente alla colpa di non aver colto l’occasione della guerra civile per far pio­vere bombe sulla Siria. L’America potrebbe aver tro­vato ora la strada mae­stra per pre­pa­rare la fine di Assad fin­gendo di aiu­tarlo a disfarsi di uno dei suoi nemici ma di fatto aiu­tando i ribelli. Usa e alleati hanno una vera pas­sione per i “mostri”. Se non esi­stono in natura li creano loro stessi armando governi o movi­menti per con­tra­stare il nemico del momento a costo di far sor­gere pre­sto o tardi un’altra “minac­cia”. La sto­ria dei tale­bani insegna.

Abu Bakr al-Baghdadi è quasi sco­no­sciuto, non si sa da dove venga e chi l’abbia cano­niz­zato, ma entra di diritto nella gal­le­ria degli orrori. Il rap­porto che lega la crisi ver­ti­cale in Iraq alla poli­tica set­ta­ria pro-sciiti con cui gli anglo-americani hanno cre­duto di “paci­fi­care” il paese una volta rove­sciato il regime del Baath è diretto e chiaro a tutti. Non è escluso che pre­sto o tardi ci sarà anche una guerra per met­tere ordine nell’ex-regno di Ghed­dafi scon­volto dalla guerra della Nato a cui, andando con­tro i pro­pri inte­ressi nazio­nali, aderì assur­da­mente anche l’Italia. Il sil­lo­gi­smo secondo cui solo gli Stati Uniti pos­sono ripa­rare ai torti con la loro auto­re­vo­lezza e forza mili­tare ha perso let­te­ral­mente di senso dopo la serie inin­ter­rotta di guerre com­bat­tute in que­sti anni dagli Stati Uniti, non si sa nep­pure se vinte o perse, che di sicuro hanno ali­men­tato ed esa­spe­rato l’esca­la­tion della violenza.

La ricerca del cat­tivo che può met­tere d’accordo tutti è un’arma pre­ziosa per la potenza “indi­spen­sa­bile”. La grande coa­li­zione per «degra­dare e demo­lire l’Isis» è stata rac­colta par­tendo dalla Nato e pas­sando per i paesi arabi amici. Fra gli alleati dell’Occidente – tutti impe­gnati a far trion­fare la demo­cra­zia e la moder­nità – ci sono dei veri e pro­pri resi­duati del Medio Evo come i regimi auto­cra­tici del Golfo, pre­ca­ris­simi e pronti a tutto, dop­pio gioco com­preso, pur di auto-perpetuarsi. Si sono aggiunti con qual­che riserva anche la Tur­chia e l’Iran. Si oppone solo la Rus­sia? Ognuno ha il suo par­ti­co­la­ris­simo obiet­tivo da esau­dire. La somma finale è tutta da veri­fi­care. L’importante è che il pro­getto com­ples­sivo sia anco­rato alla “sicu­rezza” come intesa dalle potenze che domi­nano il Cen­tro. I diritti e la soprav­vi­venza stessa dei popoli e delle nazioni della Peri­fe­ria non sono rile­vanti. Pra­ti­ca­mente i loro con­fini non esi­stono più.

L’Onu può essere solo infor­mata di sfug­gita. Oltre un certo limite di “inter­na­zio­na­lità” non si può andare per­ché dall’operazione Restore Hope – un’altra guerra giu­sta e ine­vi­ta­bile con­dotta a cavallo fra le pre­si­denze di Bush senior e Bill Cliin­ton e finita con un disa­stro ancora mag­giore per la Soma­lia, che pure par­tiva da molto in basso – i comandi mili­tari ame­ri­cani hanno dispo­sto che non accet­te­ranno più di sot­to­stare agli ordini di un organo supe­riore e neutrale.



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