Mostri e mostre in una Parigi senza più divi

Mostri e mostre in una Parigi senza più divi

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LE INSEGNE o etichette appaiono continuamente prestigiose e insigni: Grand Palais, Petit Palais, Châtelet, Vieux Colombier, Odéon, Comédie Française… Théâtre des Champs-Elysées… E dunque, la Coupole, la Rotonde, le Dôme, les Z, le Coeur, la Forme, la Solution… la Vedette… Come quelle cappelle dei Penitenti, delle Visitandine, dei Battuti, delle Repentite, di quanti amano picchiarsi dopo ogni minima scena. Generalmente, in mano a collettivi omologati, senza Divine o Divini emergenti. Spesso, con testi «tratti da» opere più o meno insigni, ma «alla portata di tutti». E quindi, a un livello di talk show televisivo. Bonariamente. Tanto, lo si sa che quei conflitti sono illusori. Sarà l’austerità? Forse sarà un bisogno di «cassetta». Dei due teatri d’opera, uno presenta solo bestsellers lirici italiani, e l’altro soprattutto balletti. Quindi, a una certa età, manca soprattutto la voglia, la spinta, l’attrattiva. Scarseggia anche il desiderio o la smania per le «novità» drammatiche o comiche, su temi come le Nuove Sensualità, la Fine dell’Innocenza, la Morte del Jazz, la Moda, la Noia, l’Acqua nella Pentola…
Temi fondamentalissimi: le generazioni, le liberalizzazioni, la force de frappe, i minimalismi, gli interventi, le indifferenze, gli umanesimi, il low-cost, la Gauche… Vocalisti neo-dada con le chiappe al vento?
E così rimangono soprattutto i musei, le gallerie. (Non già «i musei e le chiese» come nella vecchia popolare canzone «Com’è triste Venezia, soltanto l’anno dopo»). Allora, adesso, eccoci al Centre Pompidou al Beaubourg per l’immensa esposizione «Marcel Duchamp – la peinture, même», dunque l’opposto dei Multipli donati dal gallerista-mecenate Arturo Schwarz alla Galleria nazionale e romana d’arte moderna.
Attaccapanni, portacappelli, portabottiglie, orinatoi, pettini, pale da neve (quando c’era ancora la neve), finestre da riverniciare, cuori volanti, scatole e astucci in valigie… Apolinère Enameled, Large Glass, L.H.O.O.Q…. A Philadelphia, nelle sale della collezione duchampiana di Louise e Walter Arensberg, la curiosa installazione finale di Étant donnés magari potevano distrarre i visitatori attratti piuttosto dai tesori o cianfrusaglie di una mostra concomitante sui santuari dell’America Latina.
Così, in fondo a Philadelphia, quella «Chute d’eau» e quel «Gaz d’éclairage» potevano apparire quali trappole o traffici per adocchiare scomodamente – da un buco di serratura – quella medesima «Origine del mondo» di Courbet che addirittura il prof. Lacan copriva ancora con una tendina verde in fondo a un corridoio. E la tirava con molti birignao – fu raccontato – solo per pochi elettissimi. (Mentre adesso quell’organo femminile si vede tranquilla- mente a Orsay).
«Apparition d’une apparence », «Pudeur mécanique», «Inconscient organique», «Peinture de précision et beauté d’indifférence »… Le intestazioni paiono altisonanti, ma quanta buona pittura – e non di rado, eccellente – in mezzo agli incontri e scontri fra cubisti e futuristi, fumisti, esoteristi, spiritisti, spiritualisti, o ancora fauves, o puntinisti, tuttora post-impressionisti… Nudi e bagnanti presi da filmini goderecci, che qui abbondano, o da incisioni e calendarietti vagamente galanti. Sennò, i soliti paesaggi, le solite mele. O patate… E le Figurette appena disegnate, vagamente postume.
Disegni complessissimi, geometrie e morfologie macchinosissime, minuziosissime… Camera lucida, visioni extra-retiniche, iconologie e ginecologie derisorie, interpretazioni minimali, Boîteenvalise, Broyeuse de chocolat, Grand Verre … Guardando allora in fila, nelle sale, questa mole effettivamente smisurata di calcoli e foglietti e appunti di Duchamp, si finisce per comprendere la sua decisione terminale di scacchista “savant”: smetterla con la pittura, dove non era possibile primeggiare, davanti ai successi di Picasso prima e Warhol poi. E produrre ormai soltanto multipli. Cioè, EVENTI. Di cui si chiacchiera.
*** «Borgia», cancellando la «B» diventa «orgia»! Si restava incantati all’opera di Donizetti, ove lei “batte” a Venezia in cerca di giovani Gennari (benché morta a meno di quarant’anni). E indimenticabilmente prorompe: «Sei di nuovo avvelenato!».
Ma intanto… Stupri, incesti, tragedie, assassinii, delitti, Victor Hugo, Martine Carol, i sublimi Appartamenti Borgia in Vaticano, un piccolo Museo Borgia a Velletri, Pinturicchio, Orson Welles… Progetti di fortificazioni complicatissime dovuti a Leonardo da Vinci, suoi schizzi di teste presunte del Duca Valentino… Antoniazzo Romano, Cristofano dell’Altissimo.
Ecco allora, al Musée Maillol, sotto la direzione artistica di Claudio Strinati, «Les Borgia et leur temps». Con tutti gli aggettivi adeguati: légendaire, fabuleux, flagrant. Troneggia, in fondo, il gran Tiziano d’Anversa, col papa Alessandro VI che presenta a San Pietro il doge Jacopo Pesaro. Ed ecco, lì davanti, in terracotta, il discussissimo gruppo di una Sacra Famiglia che potrebbe risultare un modello per la celebre «Pietà» di Michelangelo.
Scomunicato dal papa, ecco il Savonarola in un mirabile profilo dovuto a Fra Bartolomeo. Poi, impiccato e bruciato in Piazza della Signoria, fra un notevole disinteresse dei passanti che chiacchierano di loro faccende, mentre un paio di garzoni recano altre fascine al rogo. Ecco ancora il Machiala velli, tra l’andare e venire dei Medici. E una spiegazione: Alessandro VI concede il divorzio al re di Francia Luigi XII. Questi ricambia conferendo a Cesare Borgia il titolo di duc de Valentinois.
Magnifico sovrano per tutta l’Italia, dopo una convivenza a Urbino, per Machiavelli? Ma per far strangolare meglio alcuni ex-alleati, con un «bellissimo strattagemma » il Valentino li invita a un festino di riconciliazione, a Senigallia… Intorno, magnifiche armature milanesi, bassorilievi, ceramiche invetriate, gioielli, cammei. Ovviamente, il reliquario della Pinacoteca Ambrosiana, con la supposta ciocca dei biondi capelli di Lucrezia Borgia. Manca invece ogni menzione di Chronicles of the House of Borgia , del cosiddetto «Baron Corvo». Però, un Francesco Borgia diventa nel 1565 Generale dei Gesuiti, e viene canonizzato da Clemente X un secolo dopo.
Ecco allora un ritratto presunto di Vannozza Cattanei, madre di quattro figli del pontefice. E la bellissima «Dama con l’Unicorno », cioè Giulia Farnese, favorita successiva e forse tardiva del medesimo santo padre. Accanto a suo fratello Alessandro, poi Paolo III, di Tiziano, da Capodimonte. E lì intorno, una «trasfigurazione» di Giovanni Bellini su un podietto apposito, un San Giorgio corazzato del Mantegna, un San Michele che colpisce il Demonio (di Dosso Dossi) proprio durante l’Assunzione della Vergine. Lucrezia, intanto, sposata ad Alfonso d’Este e dunque duchessa, anima la Corte conversando col Bembo e con l’Ariosto.
*** Una ricca mostra su «Le Pérugin, maître de Raphaël» al facoltoso Musée Jacquemart-André. Sul boulevard Haussmann, beninteso. E gli adepti che dormono durante la Resurrezione di Cristo, qui, paiono sopire in pose abbastanza sconce. Mentre un giovanotto agghindato da Botticelli con mazzocchio e becchetto di velluto non sa trattenere l’ombra di un dubbio. Macché Santi o Madonne. Sono perugine le architetture che funzionano come fondali protagonisti di tanti miracoli secondari. E la vista di Deruta non è certo ordinaria sotto i piedi dei santi Rocco e Romano.
Miniaturizzazioni addirittura fiamminghe, nei ritratti un po’ più maturi, con morbidezze di misura e rigore. Ma una profanità addirittura mondana, in un Combattimento fra l’Amore e la Castità, per Isabella d’Este marchesa di Mantova, con una quantità di puttini e cignetti, Muse, Orfei, Sibille, Vulcani, Sansebastiani polposi e sorridenti, fra tante preoccupazioni per un Monferrato così fuori geograficamente, e le più vicine cure del Palazzo Te.
Una industria della devozione fiorente, insomma, con brandelli di retabli pieni di giovinetti in calze strette e casacchini perfettamente plissettati, e berrettini paraculi. Mentre gli anziani si avvolgono nelle loro abbondanti e facoltose pieghe. Predelle piene di abbigliamenti ricchissimi. E così i Borgia, analogamente, si rivelano mecenati del loro stesso mito.
Una Italia abbastanza florida, allora? *** Haiku, manga, kabuki, zen, yin e yang, T’ang, Edo, Nikko, Sumitomo, Kakemono, Fuji Yama… Ventagli, uccelletti, ponticelli ricurvi, schemi artigliereschi, fantasie erotiche, rapidi colpi di pennello, pazienti pareti scorrevoli «per entrare nei corpi»… Immagini di un mondo trasversale e transitorio… Alla «déferlante Hokusai », nel Grand Palais, sembra di tornare in quella moderna Tokyo dove si sedeva scomodi per terra in giacca e cravatta e senza scarpe a una interminabile cerimonia del tè piena di vezzosi birignao in un salone del primo piano all’Imperial Hotel, mentre al pianterreno i businessmen giapponesi vestiti come noi pranzavano seduti ai tavoli, e i baristi preparavano Martini o Negroni col loro shaker, senza troppe cerimonie. E soprattutto, lì in quell’Hotel, dal barbiere mancavano le vaschette per lo shampoo dopo il taglio.
Trentasei vedute del monte Fuji, Cento poesie antiche illustrate dalla vecchia nutrice, Sette Figli di Edo, Folle che prendono il fresco ammirando i fuochi d’artificio, Piogge notturne, Lampi al tramonto, Lune serali, Nevi invernali, Oche giulive, Campane a sera… Ecco le ondate e le cascate nelle diverse province, le nevicate nei luoghi illustri, le danze per i morti, le galline selvatiche, le anatre a bagno, le gru, le sette manie delle ragazze poco eleganti…
Perfino il lavaggio di un destriero sotto una cascata, un attore nel ruolo di una bella cortigiana, una vecchia tigre che sta ammirando la luna. Fauna e flora, grazia e perfezione su carta e su seta. Ecco Hokusai. Incanti e malie del Secondo Ottocento. Ma per Il genio giapponese nelle varie epoche, ecco (un secolo fa) Henri Focillon, riedito da «medusa», con le ceramiche e le pitture e le cerimonie del tè, e tutto. *** Ancora un film su Yves Saint-Laurent. Quante pezze, pasticche, preoccupazioni. Poca Marrakesh, però.



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