Parla l’Asia. A che serve l’Europa?

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In una Milano da giorni blin­data a pro­te­zione dei due­mila dele­gati e di mille gior­na­li­sti si apre oggi 16 otto­bre il ver­tice della Asem, il sum­mit dei 53 paesi dei due con­ti­nenti che dal 1996 par­te­ci­pano al ver­tice euroa­sia­tico che si tiene ogni due anni: i 27 dell’Unione Euro­pea, i 25 di Asia, Austra­lia e Nuova Zelanda, più la Rus­sia che come sem­pre non si sa se col­lo­care in una regione o nell’altra. (Nell’occasione dovreb­bero essere accolte anche la Croa­zia e il Kasakstan).Tanta poli­zia per­chè dovreb­bero esserci tutti i lea­ders, com­presi Putin e il poten­tis­simo Xi Jinping.

Un’altra inu­tile costru­zione isti­tu­zio­nale inter­na­zio­nale? Sì e no. A suo favore, così come delle sue simili, il fatto che ogni arti­co­la­zione della glo­ba­liz­za­zione in cui pro­ta­go­ni­sta sia, almeno for­mal­mente, la poli­tica è meglio di niente. E poi que­sta Asem ha un altro signi­fi­cato che le dà una certa impor­tanza: è la sola grande isti­tu­zione inter­na­zio­nale (rap­pre­senta il 62,5 % della popo­la­zione e il 57,1% del Pil mon­diali) in cui sono pre­senti l’Europa, la Cina e la Rus­sia, ma non gli Stati Uniti. Non è un dettaglio.

Come in altri casi anche que­sto sum­mit è stato pre­ce­duto da una con­fe­renza della società civile della stessa area: anche que­sto per un verso solo un modo per la Com­mis­sione euro­pea di ren­dersi più popo­lare, per un altro, però, una buona occa­sione per i movi­menti e le asso­cia­zioni di base di incon­trarsi e lavo­rare assieme. Quando venerdì scorso, nelle splen­dide sale della Fab­brica del vapore (una vec­chia offi­cina ristrut­tu­rata) offerte alle asso­cia­zioni euro­pee e asia­ti­che dal Comune di Milano, (l’organizzazione dell’evento in Ita­lia nelle mani di Action Aid, Arci, Altra eco­no­mia e Rete del disarmo), è stato fatto l’appello delle dele­ga­zioni pre­senti, e dal set­tore asia­tico si sono alzati uno a uno Ban­gla­desh, Cam­bo­gia, Laos, India, Indo­ne­sia, Giap­pone, Mon­go­lia, Male­sia, Myan­mar, Filip­pine, Nepal, Paki­stan, Tai­lan­dia, Sin­ga­pore, Corea del sud, Viet­nam, e per­sino la Cina (sia pure con Ong un po’ par­ti­co­lari) con­fesso di aver pro­vato qual­che emo­zione. Per­ché pur abi­tuata ora­mai ai forum glo­bali tanti mili­tanti asia­tici tutti assieme in Ita­lia non si erano mai visti.

Sono stati tre giorni intensi: 4 ple­na­rie («Com­mer­cio e inve­sti­menti social­mente giu­sti»; «Pro­te­zione sociale uni­ver­sale e tra­sfor­ma­tiva»; «Giu­sti­zia cli­ma­tica, pro­du­zione soste­ni­bile di ener­gia e zero rifiuti» ; «Sovra­nità ali­men­tare e gestione soste­ni­bile della terra e delle risorse natu­rali» ; «Pace e sicu­rezza in Asia e in Europa») e 20 work­shops, tutti par­te­ci­pa­tis­simi. (E anche una serata di reci­proca cono­scenza al cir­colo Arci Corvetto).

Pro­ta­go­ni­sta l’immenso con­ti­nente asia­tico, attra­verso le tante diverse voci qui pre­senti: asso­cia­zioni con­ta­dine, ambien­ta­li­ste, paci­fi­ste, embrio­nali orga­ni­smi di difesa di un oceano di lavoro nero e di migranti. Tan­tis­sime le donne, per­ché l’economia infor­male è il loro regno, poco pre­senti i sin­da­cati uffi­ciali, che in que­sto con­te­sto rap­pre­sen­tano poco, quasi solo i dipen­denti pub­blici, i soli più sta­bili e dun­que protetti.

Ogni paese ha natu­ral­mente la sua sto­ria, quasi sem­pre dolo­rosa per­ché per tutti si è trat­tato di libe­rarsi da un seco­lare giogo colo­niale diretto o indi­retto, le vicende dell’Indocina, ma anche la rivo­lu­zione cinese o il mas­sa­cro di un milione di comu­ni­sti in Indo­ne­sia ci sono tri­ste­mente note. Oggi tutti alle prese con le tem­pe­ste sca­te­nate dalla glo­ba­liz­za­zione, che hanno inve­stito il Viet­nam così come la Male­sia. E hanno pro­dotto una disu­gua­glianza immensa, sem­pre masche­rata dalle cifre della «media»: per­ché è vero che in molti casi il red­dito pro capite è aumen­tato per via di un certo svi­luppo selet­tivo e quasi sem­pre insano, che ha coin­volto solo la fascia medio alta della popo­la­zione, ma il resto è rima­sto alle prese con u mer­cato cru­dele che ha distrutto le vec­chie eco­no­mie di sus­si­stenza senza creare nuove oppor­tu­nità. E poi ci sono le dit­ta­ture: per un buon governo strap­pato final­mente in Indo­ne­sia (ma sem­pre insi­diato dai mili­tari), il nuovo colpo di stato del gene­rale Pray­outh Chan-Ocha in Thai­lan­dia che ha impo­sto a molti dei mili­tanti di ricor­rere alla clan­de­sti­nità o di chie­dere asilo poli­tico. E’il caso di una gio­vane minuta donna di Ban­g­kok, arri­vata qui con la dele­ga­zione fin­lan­dese, per­ché da qual­che tempo ha tro­vato rifu­gio in quel paese. È dovuta scap­pare per­ché la dit­ta­tura ha affisso ovun­que mani­fe­sti con l’immagine degli 80 prin­ci­pali nemici da sco­vare: lei era il nemico numero 1. Aveva gui­dato mille donne che lavo­ra­vano come lei per una ditta natu­ral­mente stra­niera ad occu­pare il Mini­stero del lavoro.

Gli inve­sti­menti esteri, per l’appunto: danno vita più che altro a magaz­zini di assem­blag­gio di pezzi pro­dotti chissà dove, uffici di com­mer­cia­liz­za­zione e nulla più, privi di respon­sa­bi­lità rispetto a chi lavora per loro. L’Unione Euro­pea anzi­ché spac­ciare que­sta glo­ba­liz­za­zione come moder­nità dovrebbe attrez­zarsi a con­trol­lare le avven­ture asia­ti­che dei capi­tali che pro­ven­gono dai nostri paesi, recla­mare il rispetto di norme sociali, sani­ta­rie, eco­lo­gi­che. Dif­fi­cile, ma non impos­si­bile. Non biso­gna stan­carsi di chie­derlo. Anche per­ché la que­stione del com­por­ta­mento inter­na­zio­nale dell’Unione euro­pea — che non è che il paral­lelo dello sman­tel­la­mento in atto da noi di tutte le con­qui­ste del ’900 — sol­leva un inter­ro­ga­tivo pesante: nel 1957, quando il primo embrione dell’Europa venne alla luce e si chiamò Mec, dar vita ad un mer­cato comune nel nostro con­ti­nente fu una buona idea. Ma oggi che il mer­cato è glo­bale e tutti com­mer­ciano con tutti, essere un pezzo di que­sto mer­cato glo­bale non ha molto senso. E allora o l’Europa è altro, un modello sto­rico vir­tuoso per via del com­pro­messo sociale che qui ha avuto la sua espres­sione più alta, — ed è per via di que­sta espe­rienza comune che esi­ste come entità poli­tica — oppure non è niente.

Sal­va­guar­dare la sostanza di que­sto nostro modello, sia pure inno­vando per affron­tare le nuove carat­te­ri­sti­che del lavoro, ha oggi una pre­messa: impe­dire che siano appro­vati i trat­tati di libe­ra­liz­za­zione degli scambi e degli inve­sti­menti che pen­dono dinanzi ai nostri par­la­menti. Per noi in Europa si tratta sopra­tutto del Trat­tato tran­sa­tlan­tico (ma non solo). Respin­gerlo, per via di tutto ciò che sap­piamo implica, è un aiuto con­creto ai nostri part­ners asia­tici, alle prese, a loro volta, con ana­lo­ghi nego­ziati trans­pa­ci­fici. Di que­sto, no a caso, si è soprat­tutto par­lato qui a Milano.

Anche le Ong euro­pee erano pre­senti in molte. E molte fra loro le ita­liane: grandi e cono­sciute, ma anche pic­co­lis­sime, loca­lis­sime, mai sen­tite nomi­nare. Ogni tanto arriva qual­che con­so­la­zione sul nostro paese, che è meglio di quanto non si creda a guar­dare la tv, una società civile forse più ricca e dina­mica di altre. Si vede che a qual­cosa è ser­vito esser stato il paese d’Europa più poli­ti­ciz­zato, sia pure tanto tempo fa.



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