Pisapia difende San Vittore: il carcere resti dentro la città
MILANO Se ne parlava già ai tempi di Carlo Tognoli, sindaco di Milano alla fine degli Anni 70. È diventato un tormentone sotto il regno di Gabriele Albertini, fine Anni 90. Ci ha riprovato il ministro Roberto Castelli nel 2005. È tornato alla ribalta con il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri dalle pagine del Corriere ha rilanciato il leitmotiv: il carcere di San Vittore va chiuso e sostituito con uno più piccolo fuori Milano.
Orlando però ha fatto i conti senza Giuliano Pisapia, sindaco di Milano. A differenza dei predecessori, l’avvocato penalista, esperto di problemi carcerari, boccia la proposta: «Ritengo che non si debba chiudere San Vittore ma proseguire, e accelerare, l’opera di ristrutturazione e modernizzazione già iniziata». Che non siano solo parole lo dimostra il fatto che nel Piano del governo del territorio, lo strumento urbanistico per eccellenza voluto dal sindaco e dal suo braccio destro Ada Lucia De Cesaris, San Vittore, sebbene statale, sia destinato a «servizio».
Troppi giudizi affrettati secondo Pisapia. «Da anni si discute dell’opportunità o meno di chiudere il carcere milanese, a volte senza conoscere la realtà di San Vittore e senza proporre alternative realistiche». Il sindaco riconosce che San Vittore è vecchio ma ricorda al ministro che è partita la ristrutturazione di due raggi: «Per i lavori già fatti, per la professionalità di direttori e polizia penitenziaria, per le esperienze di socialità di cui questo carcere è stato spesso all’avanguardia, ritengo che non si debba chiuderlo». Anche sul problema del sovraffollamento Pisapia dice la sua. Oggi a San Vittore sono ospitate 1.015 persone, 945 uomini e 70 donne, quasi tutti in attesa di giudizio, contro una capienza certificata di 702. Numeri in diminuzione rispetto all’anno scorso, quando i detenuti erano 1.351, ma pur sempre una situazione di enorme disagio. Non è con la chiusura del carcere di piazza Filangieri che si risolve il problema: «Bisogna intervenire, e qui parla più l’avvocato che il sindaco, con una riforma del codice penale in modo da prevedere, per i reati di non grave allarme sociale, pene diverse e più efficaci della detenzione, spesso scuola di criminalità».
Ma c’è un altro motivo per cui Pisapia dice no alla chiusura. Anzi due. Il primo lo definisce «culturale». «Abbiamo la tentazione di nascondere i problemi della società, rimuoverli. Un carcere in centro a Milano ricorda a tutti che viviamo in un mondo complesso, in cui esistono violenza, emarginazione e povertà e che i problemi vanno affrontati e non rimossi». Il secondo: «Temo che i detenuti lontano dalla città perdano contatto con il mondo esterno, famiglie, avvocati, assistenti sociali e volontari che avrebbero più difficoltà a raggiungere il carcere». Nel 2001, da capogruppo di Rifondazione in commissione Giustizia alla Camera, usò una parola più forte: «ghettizzazione». La sostanza non cambia.
Maurizio Giannattasio
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