La ricchezza di Thomas Piketty

by redazione | 8 Ottobre 2014 10:24

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Lo scorso mer­co­ledì 1 otto­bre Mar­tin Wolf ha pub­bli­cato sul Finan­cial Timesun arti­colo sulle ragioni che fanno dell’ineguaglianza un vero e pro­prio freno all’economia. Per dimo­strare l’impatto eco­no­mico delle dise­gua­glianze nella distri­bu­zione del red­dito e del capi­tale, in par­ti­co­lare una domanda debole e la regres­sione dei livelli di edu­ca­zione, Wolf si basa su due studi, uno di Stan­dard &Poor’s e l’altro di Mor­gan Stan­ley, due isti­tu­zioni che dif­fi­cil­mente pos­sono con­si­de­rarsi di sini­stra. Il qua­dro che emerge da que­ste ana­lisi, che si rife­ri­scono agli Stati Uniti a par­tire dagli anni Novanta, è tale da por­tare l’autore a con­clu­dere che in un’economia basata sul debito i costi mag­giori dell’aumento delle dise­gua­glianze eco­no­mi­che e for­ma­tive sono l’erosione dell’ideale repub­bli­cano della «cit­ta­di­nanza con­di­visa», in altre parole il rischio di defla­gra­zione eco­no­mica e sociale del capi­ta­li­smo mede­simo. Curioso è il fatto che que­ste con­si­de­ra­zioni ven­gano fatte sulle pagine dello stesso quo­ti­diano finan­zia­rio­che, in occa­sione della pub­bli­ca­zione inglese del libro di Tho­mas Piketty, Il capi­tale nel XXI secolo (oggi in ita­liano gra­zie ai tipi della Bom­piani, tra­du­zione di Ser­gio Arecco, pp. 928, euro 22), aveva cer­cato di smon­tare in modo grot­te­sco una delle tesi cen­trali del libro, la ten­denza all’aumento verso l’alto della con­cen­tra­zione della ric­chezza. Basti que­sto per sot­to­li­neare l’importanza dello stu­dio di Piketty il cui merito prin­ci­pale, oltre al ter­re­moto sca­te­nato den­tro l’accademia ege­mo­niz­zata dal pen­siero neo­li­be­rale, con­si­ste nell’aver descritto, «con pre­ci­sione atroce e dif­fi­cil­mente con­fu­ta­bile», come ha scritto David Har­vey (Riflet­tendo su ’Capi­tal’ di Piketty, in com?mo?n?ware?.org), l’evoluzione nel corso degli ultimi due secoli della disu­gua­glianza sociale rispetto sia alla ric­chezza sia al reddito.

LA CON­TRAD­DI­ZIONE CENTRALE

Dalla sua pub­bli­ca­zione in Fran­cia nel 2013, il libro di Piketty è stato più volte recen­sito, ma è comun­que utile rias­su­mere in modo sin­te­tico i risul­tati prin­ci­pali del suo stu­dio. In par­ti­co­lare la con­clu­sione teo­rica secondo cui, quando il tasso di ren­di­mento del capi­tale ® supera il sag­gio di cre­scita del red­dito (g), le disu­gua­glianze aumen­tano fino a risul­tare «incom­pa­ti­bili con i valori meri­to­cra­tici e i prin­cipi di giu­sti­zia sociale su cui si fon­dano le moderne società demo­cra­ti­che». Quando il «dive­nire ren­tier» del capi­tale a sca­pito di coloro che non pos­sie­dono altro che il pro­prio lavoro, aggra­vato dalla suc­ces­sione ere­di­ta­ria della ric­chezza accu­mu­lata, ripro­duce il capi­tale più velo­ce­mente dell’aumento della pro­du­zione, «il pas­sato divora il futuro», e la pola­riz­za­zione della ric­chezza e del red­dito cre­sce a dismi­sura. Sull’arco di due­cento anni que­sta è stata la «regola», salvo nel periodo tra le due guerre mon­diali che, a fronte dell’Urss come com­pe­ti­tor, per­mi­sero per i trent’anni «glo­riosi» del secondo dopo­guerra l’introduzione di poli­ti­che di wel­fare state e di redi­stri­bu­zione della ric­chezza. Nel periodo tra il 1920 e il 1980, il ren­di­mento del capi­tale ha infatti cono­sciuto una rela­tiva dimi­nu­zione (al 2,5/3,5%), salvo poi rista­bi­lirsi attorno al 4–5% a par­tire dal 1980, lo stesso tasso del periodo tra il 1870 e il 1910, con una tasso medio di cre­scita del red­dito pari a 1–1,5%.
Ciò che resta opaco nella tesi cen­trale dell’analisi di Piketty è però pro­prio la causadella dise­gua­glianza tra ren­di­mento del capi­tale e cre­scita del red­dito. Lo dimo­stra bene Gior­gio Gat­tei in un suo arti­colo, Quel capi­tale peri­co­loso: tutte le for­mule di Piketty (in «Eco­no­mia e poli­tica», rivi­sta online di cri­tica della poli­tica eco­no­mica): «la per­cen­tuale di red­dito che va al capi­tale aumenta se cre­sce il tasso di ren­di­mento e/o la pro­pen­sione al rispar­mio, men­tre dimi­nui­sce se aumenta il sag­gio di cre­scita del red­dito». Si tratta di una for­mula tau­to­lo­gica che per­mette di descri­vere i sin­tomi di un pro­cesso assai più pro­fondo e com­plesso. Oltre­tutto, il feno­meno descritto da Piketty non può che essere tem­po­ra­neo per­ché la parte dei bene­fici del capi­tale non può aumen­tare linear­mente a dismi­sura, con la metà e oltre del red­dito pro­dotto che va a ren­di­mento del capi­tale, come Piketty esem­pli­fica per dimo­strare quel che potrebbe acca­dere entro la fine del XXI secolo. Dato che i lavo­ra­tori non vivono di aria, esi­ste un limite estremo di remu­ne­ra­zione per­cen­tuale del capi­tale, ed è un limite sto­ri­ca­mente deter­mi­nato.
Certo, le guerre e le rivo­lu­zioni sono ser­vite, e ser­vono tut­tora, per sva­lo­riz­zare il capi­tale e in tal modo ridurre spe­re­qua­zioni dei red­diti alla lunga insop­por­ta­bili. Ma c’è qual­cosa di ancor più «costi­tu­tivo» che spiega l’origine della dise­gua­glianza tra ren­di­mento del capi­tale e ren­di­mento del red­dito, ed è il ruolo dell’accumulazione orginaria.

CON­DI­VI­SIONE IN SALSA LIBERISTA

All’origine della pro­prietà pri­vata e dell’accumulazione del capi­tale si trova l’appropriazione vio­lenta dei com­mons, una appropriazione-recinsione del comune, come ha spie­gato magi­stral­mente San­dro Mez­za­dra (si veda il suo ultimo libro, scritto con Brett Neil­son, Con­fini e fron­tiere. La mol­ti­pli­ca­zione del lavoro nel mondo glo­bale, il Mulino), che si ripete nel tempo per­ché la ten­denza del capi­tale è quella di recin­tare di volta in volta le forme della coo­pe­ra­zione sociale nella sfera della pro­du­zione e in quella della riproduzione-conservazione della vita. Il dive­nire ren­dita del capi­tale descritto da Piketty è un pro­cesso sto­rico di lotta tra appro­pria­zione del comune, estra­zione di valore-ricchezza e pro­du­zione sociale di nuovi spazi di coo­pe­ra­zione e con­di­vi­sione. È que­sto che fa del capi­tale un rap­porto sociale, una «pro­ces­sua­lità rela­zio­nale» (David Har­vey) di crea­zione arti­fi­ciale di scar­sità(ad esem­pio del lavoro, ma anche dei beni imma­te­riali) tale da per­met­tere la rea­liz­za­zione di ren­dite cre­scenti. In assenza di que­sta defi­ni­zione del capi­tale, lo stu­dio di Piketty rischia di limi­tarsi ad una «sto­ria del patri­mo­nio», indi­pen­den­te­mente dall’uso capi­ta­li­stico di que­sto stesso patri­mo­nio.
Ha quindi ragione Rus­sell Jacoby, nel suo Il prag­ma­ti­smo dell’utopia (apparso suLe Monde Diplo­ma­ti­que e ripreso da il mani­fe­sto, 22 ago­sto 2014), a met­tere in evi­denza l’assenza del lavoro nello stu­dio di Piketty, il fatto che il capi­tale «ha biso­gno della forza lavoro e al tempo stesso cerca di farne a meno», creando una popo­la­zione ope­raia ecce­dente rela­tiva. Non solo il lavoro, le sue tra­sfor­ma­zioni nel tempo sto­rico, non sem­bra inte­res­sare l’economista fran­cese indif­fe­rente ai movi­menti sociali, «vac­ci­nato a vita con­tro i discorsi anti­ca­pi­ta­li­stici con­ven­zio­nali e triti» (Piketty). Nella sua defi­ni­zione di capi­tale (denaro, ter­reni, immo­bili, fab­bri­che e mac­chi­nari, attivi mobi­liari) è assente il capi­tale cogni­tivo umano, quel capi­tale costi­tuito da saperi, cono­scenze, rela­zioni, coo­pe­ra­zioni, che per­mette di spie­gare la con­cen­tra­zione geo­gra­fica della ric­chezza ma anche il suo aumento e la sua dif­fu­sione come fat­tori di cre­scita. Un fat­tore cru­ciale, che svela la con­trad­di­zione traren­di­menti cre­scenti e con­cor­renza pura di matrice neo­clas­sica (David Warsh, La cono­scenza e la ric­chezza delle nazioni. Una sto­ria dell’indagine eco­no­mica, Fel­tri­nelli).

IL DEBITO E LE DISUGUAGLIANZE

Ren­di­menti cre­scenti che non sareb­bero pos­si­bili senza il denaro, senza l’accesso al cre­dito ban­ca­rio e le dise­gua­glianze gene­rate dall’eco­no­mia del debito, come dimo­stra l’economista tede­sco Daniel Stel­ter (Die Schul­den im 21. Jah­rhun­dert, Was ist drin, was ist dran und was fehlt in Tho­mas Piket­tys DAS KAPITAL, Frank­fur­ter All­ge­meine Buch). Qui dav­vero si tocca una delle mag­giori debo­lezze dell’opera di Piketty, l’assenza totale dell’analisi del debito come fat­tore auto­nomo e in sé deci­sivo nell’aumento delle disu­gua­glianze nel corso degli ultimi trent’anni. Nell’analisi di Stel­ter, le disu­gua­glianze del patri­mo­nio pro­ven­gono dalla poli­tica mone­ta­ria a bassi tassi d’interesse orche­strata dalle ban­che cen­trali e dall’aumento dei debiti. L’attacco siste­ma­tico al sala­rio, con l’aggiunta della caduta del muro di Ber­lino e l’apertura della Cina al capi­ta­li­smo, ha per­messo la cre­scita eco­no­mica gra­zie all’indebitamento pri­vato. I debiti, non solo negli Usa, sono schiz­zati verso l’alto per soste­nere l’aumento dei red­diti e in Europa sono aumen­tati i tra­sfe­ri­menti sociali rela­ti­va­mente alla dimi­nu­zione del pre­lievo fiscale sugli alti red­diti e sul capi­tale. Il debito è il pro­blema chiave per­ché il debito con­cen­tra il rischio su quelli che meno pos­sono soste­nerlo, e quando il patri­mo­nio in cui si è inve­stito (come nel caso dei mutui sub­prime) si sva­luta, aumenta la con­cen­tra­zione delle per­dite e la disu­gua­glianza di ric­chezza. «Il debito intro­duce una non linea­rità nel sistema eco­no­mico, che i modelli key­ne­siani tra­scu­rano» (Atif Mian Amir Sufi, House of Debt. How They (and You) Cau­sed the Great Reces­sion, and How We Can Pre­vent It from Hap­pe­ning again, The Uni­ver­sity of Chi­cago Press).
Forse il vero merito de Il Capi­tale di Piketty risiede nel costrin­gere un po’ tutti a pen­sare mar­xia­na­mente, a cer­care in ciò che egli non dice ciò che noi vogliamo vedere per lottare.

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