Lo storico scontro tra ecologisti ed economisti

Lo storico scontro tra ecologisti ed economisti

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Economisti ed eco­lo­gi­sti non si sono mai sti­mati troppo. Se depu­riamo il dis­senso dalle accuse inge­ne­rose rimane negli uni la con­vin­zione che a furia di pro­teg­gere la sacra­lità della «natura» non si sarebbe mai usciti dalle caverne, men­tre gli altri repli­cano che con­ti­nuando a distrug­gere la natura si finirà ben pre­sto nelle stesse caverne di prima.

Gli uni dicono agli altri che non hanno stu­diato; repli­cano i secondi che stu­diare le cose sba­gliate nei libri sba­gliati è ancor peg­gio. Un dis­senso che non ha fine. Ancora recen­te­mente Van­dana Shiva, eco­lo­gi­sta rino­mata, è stata presa di mira con una punta di disprezzo dagli avver­sari, non per la sua lezione, ma per qual­che bollo uni­ver­si­ta­rio man­cante nel suo curriculum.

Era 1973 in otto­bre quando Nicho­las Geor­ge­scu Roe­gen, Ken­neth Boul­ding e Her­man Daly scris­sero il loro Mani­fe­sto, fir­mato da altri due­cento economistii, per la riu­nione annuale dell’American Eco­no­mic Asso­cia­tion in agenda due mesi dopo.

Il testo, bre­vis­simo, è stato ripub­bli­cato varie volte, per esem­pio nel 2006 da Capi­ta­li­smo Natura Socia­li­smo, (Jaca Book a cura di Gio­vanna Rico­veri), un’antologia degli scritti della rivi­sta Cns. Ecco quel che i tre sug­ge­ri­vano: «Nel corso degli ultimi due secoli gli eco­no­mi­sti sono stati por­tati sem­pre più spesso non solo a misu­rare, ana­liz­zare e teo­riz­zare la realtà eco­no­mica, ma anche a con­si­gliare, pia­ni­fi­care e pren­dere parte attiva nelle deci­sioni poli­ti­che. Noi invi­tiamo i col­le­ghi eco­no­mi­sti ad assu­mere un loro ruolo nella gestione del nostro pia­neta. Dob­biamo inven­tare una nuova eco­no­mia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il con­trollo razio­nale del pro­gresso e delle appli­ca­zioni della tec­nica, per ser­vire i reali biso­gni umani, invece che l’aumento dei pro­fitti e del pre­sti­gio nazio­nale o le cru­deltà della guerra».

Dif­fi­cile dire meglio di così. Come si può capire, Barry Com­mo­ner era d’accordo. Il «con­trollo razio­nale del pro­gresso e della tec­nica» era una scelta indi­spen­sa­bile per garan­tire la stessa soprav­vi­venza umana.

In uno scritto di Com­mo­ner della fine degli anni ottanta e poi letto e riletto fino agli anni recenti: «Una valu­ta­zione del pro­gresso ambien­tale: la ragione del fal­li­mento» (Eco­no­mia & Ambiente, novem­bre dicem­bre 2012) si trova una chiave inter­pre­ta­tiva che tutti pos­sono fare pro­pria: «Quando un inqui­nante è al punto di ori­gine, può essere eli­mi­nato; una volta che è pro­dotto, è troppo tardi. Insomma, l’inquinamento ambien­tale è quasi una malat­tia incu­ra­bile; può solo essere pre­ve­nuto. …L’approccio con­ven­zio­nale è quello per cui que­ste tec­no­lo­gie che sono alta­mente pro­dut­tive dal punto di vista eco­no­mico, gene­ral­mente hanno un serio impatto sull’ambiente».

Più avanti si legge: «Ciò porta a pen­sare che tali tec­no­lo­gie deb­bano essere usate come mezzi per lo svi­luppo eco­no­mico, in modo che la qua­lità ambien­tale possa essere rag­giunta solo aggiun­gendo ad esse i mezzi di con­trollo dell’inquinamento».

È pos­si­bile farlo, oppure sono con­tro­in­di­ca­zioni i costi aggiun­tivi alla pro­du­zione vera e pro­pria? Com­mo­ner esa­mina il caso dell’industria del petro­lio. «L’industria petrol­chi­mica è ugual­mente famosa per il suo suc­cesso eco­no­mico, essendo cre­sciuta negli Stati Uniti, ad esem­pio, fino a 250 miliardi di dol­lari in meno di 40 anni. Ciò che è meno noto è che fare un serio sforzo per ret­ti­fi­care i difetti ambien­tali dell’industria signi­fi­che­rebbe distrug­gere let­te­ral­mente la sua vita­lità economica.

L’industria petrol­chi­mica genera circa 300 milioni di ton­nel­late di sco­rie tos­si­che ogni anno, il 90% delle quali viene intro­dotto nell’ambiente in un modo o nell’altro: nei pozzi, nelle lagune di super­fi­cie, nei ser­ba­toi. Solo l’uno per cento delle sco­rie viene distrutto, che è l’unico modo per assi­cu­rarsi che que­ste sostanze alta­mente peri­co­lose e che durano a lungo non si accu­mu­lino e alla fine minac­cino gli esseri viventi. Insomma, l’industria petrol­chi­mica è pro­fit­te­vole solo per­ché è riu­scita, finora, ad evi­tare di pagare il suo conto all’ambiente».

Gli economisti dovreb­bero appli­carsi a que­sti pro­blemi, ma lo fanno troppo poco. La casa-madre di tutti gli eco­no­mi­sti, la World Bank, fun­ziona assai spesso come mega­fono delle com­pa­gnie petro­li­fere, non solo, ma fa anche pro­fit­te­voli col­lette per i mag­giori inve­sti­menti che tra­sfor­mano il globo in uno spa­zio attra­ver­sato per ogni dove da strade e ponti, gal­le­rie e via­dotti, sta­zioni di rifor­ni­mento e oleo­dotti e ne fanno l’ambiente adatto per auto e camion, con­si­de­rando quasi il genere umano come un inu­tile, ingom­brante, sopramobile.

Non tutti gli eco­lo­gi­sti sanno arri­vare fino in fondo, ma si fer­mano a un com­pro­messo che con­si­de­rano insu­pe­ra­bile, ori­gi­nato dal buon­senso.
Solo che è il buon­senso della serie, famosa dai tempi del Mag­gio fran­cese, del sin­da­ca­li­sta che si rivolge ner­vo­sa­mente all’attivo dei suoi che lo ascol­tano senza fia­tare. «Insomma, cosa volete?» e alla rispo­sta: «Fare la rivo­lu­zione», replica a sua volta: «Impos­si­bile. I padroni non ci sta­ranno mai!»



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