Nella tempesta di fuoco di Kobane Colonne di jihadisti e blindati in fumo

Nella tempesta di fuoco di Kobane Colonne di jihadisti e blindati in fumo

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BOIDI (confine Siria-Turchia) Alle undici di mattina tre colonne di fumo nero dominano l’orizzonte della città. I jet americani sono tornati a bombardare. Alti nel cielo si odono i rombi dei loro motori. Poco dopo colpiscono le periferie occidentali.
In lontananza si intravedono alcuni gipponi dello Stato islamico ritirarsi veloci verso sud e sparire in una nube di polvere. È il fatto nuovo della giornata. Dopo le drammatiche avanzate degli ultimi tempi, i jihadisti paiono rallentare, sono continuamente costretti a disperdersi per non costituire un bersaglio evidente.
«Stanno bruciando almeno due carri armati dello Stato islamico. Un terzo è danneggiato e non può muoversi. Per una volta, gli americani hanno ottenuto qualche effetto sul terreno. Peccato, però, che abbiano deciso di bombardare in modo massiccio solo adesso che i jihadisti sono entrati nel perimetro urbano di Kobane. Se lo avessero fatto prima, probabilmente avremmo già rotto l’assedio», dice Tahir Korhan, un curdo 45enne che assieme a tanti compagni del Pkk (il «Partito dei Lavoratori Curdi» accusato di terrorismo dai turchi) si trova sul confine con la speranza di raggiungere i «fratelli» siriani (che si stima contino a Kobane circa 4.000 effettivi, dei quali 1.000 sarebbero donne).
Arrivare in contatto con lui sulla linea della frontiera turca, a poche centinaia di metri dalle prime abitazioni di Kobane, ieri è stato più complicato che nelle ultime due settimane. I militari turchi hanno vietato l’accesso al punto frontaliero di Mursitpinar. Ormai possono transitare solo le ambulanze. Per il resto, autoblindo e carri armati (almeno una trentina) sono di guardia.
Lascia perplessi incontrare tutta questa potenza di fuoco ferma e silenziosa mentre vicinissimi i guerriglieri jihadisti — gli stessi che tagliano le gole agli occidentali e vendono come schiave sessuali le donne yazide — continuano la loro offensiva contro i miliziani curdi. Anzi, l’unica azione di forza qui i turchi la compiono proprio contro i curdi. Questi ultimi sono arrivati a migliaia per sostenere i «fratelli» in Siria. Ma i soldati non li fanno avvicinare a Kobane. Prima di mezzogiorno li caricano con le autoblindo antisommossa fornite di idranti e lanciacandelotti, i curdi tirano pietre. In breve le nuvole bianche dei lacrimogeni nascondono quelle molto più nere dei combattimenti dall’altra parte del filo spinato che segna il territorio siriano. È la rappresentazione grafica della complessità articolata caratterizzante la sfida globale contro lo Stato Islamico.
Un conflitto che in verità è composto da tanti conflitti separati. E uno dei più rilevanti adesso è proprio quello antico tra governo turco e minoranza curda. «Per noi il Pkk rappresenta una minaccia uguale a quella dello Stato islamico», ripete Recep Tayyip Erdogan. Ieri il presidente turco è tornato sul tema, specificando le condizioni necessarie affinché il suo Paese si impegni militarmente a fianco della coalizione alleata. «Kobane sta per cadere. Ma il problema costituito dallo Stato islamico non può essere risolto solo con i bombardamenti aerei», ha detto, ribadendo le critiche alla strategia americana. Quindi Erdogan ha ripetuto l’elenco delle tre richieste turche, oltre a quella fondamentale dell’impegno occidentale per rimuovere il regime di Bashar Assad: una «no-fly zone» lungo il confine, accompagnata da una «zona cuscinetto» garantita da truppe sul terreno ed infine l’impegno concreto per addestrare e armare i gruppi di ribelli siriani moderati.
Alle due del pomeriggio arriviamo alle sei o sette abitazioni contadine ad un piano che compongono la frazioncina turca di Boidi. Mursitpinar resta a due chilometri sulla sinistra. La frontiera è solo a cento metri, nascosta dagli alberi da frutto. Dall’altra parte passa un gruppo di uomini in motocicletta. «Sono jihadisti. Fanno da scout per le unità sui gipponi che verranno qui questa sera. Danno la caccia ai volontari curdi che cercano di entrare e arrestano quelli che vorrebbero fuggire», dicono gli abitanti, tutti curdi.
Dall’interno di Kobane arriva continuamente l’eco del crepitio delle mitragliatrici, ogni tanto lo scoppio di una granata, l’esplosione cupa di un mortaio. È la tanto attesa battaglia casa per casa. I curdi si dicevano sicuri di vincerla. «Abbiamo solo mitra e pistole. Non possiamo nulla contro i carri armati e i loro gipponi blindati. Ma li batteremo nelle tattiche della guerriglia urbana», ci dicevano per telefono da Kobane una settimana fa. Ma adesso le loro speranze sembrano infrangersi contro la realtà: i jihadisti sono ottimi guerriglieri, motivati, pronti alla morte e al «martirio» in nome della «guerra santa». Gli anni di guerriglia urbana o rurale — contro la dittatura di Damasco, in Afghanistan assieme ai talebani, in Iraq contro gli sciiti e gli americani, o in Libia al fianco delle brigate qaediste — li hanno ben addestrati. Pare che, negli ultimi giorni, siano riusciti ad uccidere almeno 400 miliziani curdi. Resta invece sconosciuto il numero delle vittime nelle loro file.
Dalle terrazze sui tetti delle abitazioni di Boidi si vedono i quartieri sud-orientali di Kobane su cui sventola la bandiera dello Stato islamico. Alle tre del pomeriggio il fracasso della battaglia resta intenso. Un fungo di polvere nera domina Mishtenur, la collina più alta presa tre giorni fa. Con l’arrivo delle prime ombre, ci si prepara alla prossima notte di guerra.



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