Varese, agenti in tribunale per la morte di Uva. Ci sono voluti 6 anni
Imputati, in aula. Sei anni e mezzo dopo la morte di Giuseppe Uva, per la prima volta i due carabinieri e i sei poliziotti che lo arrestarono e lo portarono nella caserma di via Saffi, varcano le soglie dell’aula bunker del tribunale di Varese. Contro di loro le accuse sono pesantissime: omicidio preterintenzionale, abuso di potere, arresto illegale e abbandono d’incapace. Una vittoria già così, visti i sei anni di fatiche dolorosissime patite dalla sorella della vittima, Lucia Uva, che in più occasioni si è scontrata con i procuratori Agostino Abate e Sara Arduini, che hanno messo sotto inchiesta tutti (medici, giornalisti, la stessa Lucia) ma mai hanno voluto sfiorare gli uomini in divisa: per loro avevano chiesto due volte l’archiviazione, trovando sempre l’opposizione del gip di turno. Anche il pm che arrivò in loro sostituzione, Felice Isnardi, concluse che Giuseppe non era stato pestato, ma, anche in questo caso, alla fine il gup Stefano Sala decise per il dibattimento in aula.
La giornata a Varese è cominciata con l’ammissione delle telecamere di Raitre e dei microfoni di Radio Radicale, che potranno trasmettere il processo in differita. La Corte d’Assise di Varese, presieduta dal giudice Vito Piglionica, ha anche ammesso i parenti di Uva come parti civili, escludendo però l’associazione A Buon Diritto del senatore Luigi Manconi. L’avvocato degli agenti (nonché consigliere regionale eletto con il Pdl) Luca Marsico ha cercato di opporsi a entrambe le istanze, parlando apertamente di «processo mediatico» e cercando di mettere subito sotto accusa lo stile di vita di Giuseppe Uva.
Tutto era cominciato con una bravata, la notte del 14 giugno 2008, Giuseppe e il suo amico Alberto Biggiogero, ubriachi, stavano spostando una transenna in mezzo alla strada. Arrivò una pattuglia, un agente disse: «Uva, proprio te cercavamo». Poi l’arresto, le ore in caserma tra urla e — secondo l’accusa — sevizie, il Tso, il ricovero in ospedale e la morte.
Adesso sarà un processo a stabilire cosa successe quella notte. L’aspettativa è grande: tra il pubblico si sono visti i ragazzi di Acad (Associazione contro gli abusi in divisa), Domenica Ferrulli (figlia di Michele, morto durante l’arresto, a Milano, nel 2011), Paolo Scaroni (il tifoso del Brescia picchiato brutalmente dalla celere dopo la partita, a Verona, nel 2005), oltre a Biggiogero: tutti lì a sostenere Lucia Uva e la sua battaglia. C’era anche Gianni Tonelli, leader del Sap, a testimoniare la solidarietà sua e del sindacato di polizia ai colleghi finiti alla sbarra. Un copione che si ripete sempre uguale: furono proprio i militanti del Sap a tributare cinque minuti con standing ovation agli agenti condannati per l’omicidio Aldrovandi, durante l’ultimo congresso, lo scorso aprile.
«La sua presenza non ci disturba – ha detto l’avvocato di Lucia, Fabio Ambrosetti — l’udienza è pubblica, chiunque può venire a vedere». La giornata, ad ogni modo, è stata buona: «A noi basterebbe una condanna in primo grado per poter dimostrare che quella notte ci furono violenze. La Corte ci ha dato l’idea di voler fare in fretta». I primi testimoni saranno sentiti il prossimo 14 novembre, a parte l’omicidio preterintenzionale, tutti i reati contestati agli agenti andranno in prescrizione il 15 dicembre del 2015: c’è tempo per fare un processo, ma non per superare tutti e tre i gradi di giudizio.
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