Il virus, l’Africa e noi

Si deve essere grati ad Adriano Prosperi per aver portato la sua voce autorevole su un organo dell’establishment, di per sé autorevole come la Repubblica, per far notare e stigmatizzare i retropensieri — di carattere politico ma si vorrebbe dire di civiltà — con cui in Occidente segue il dramma dell’Ebola. Se l’emergenza risveglia i peggiori sentimenti anche fra vicini, l’Africa, già discriminata a molti livelli, rischia di essere definitivamente ghettizzata nella sua inferiorità e inadeguatezza.
Due organismi specializzati come Medici senza frontiere e l’Organizzazione mondiale della sanità hanno tenuto atteggiamenti diversi sull’allarme Ebola: più sovraesposto il comportamento di Msf, più cauto quello dell’Oms. Senza riprendere qui i giudizi che ne hanno dato gli esperti, paradossalmente entrambi gli orientamenti possono ritorcersi contro l’Africa. In Africa le malattie diventano immediatamente tragedie apocalittiche. Oppure, lasciamo che l’Africa seppellisca i suoi morti e noi stiamone fuori. È un po’ quanto avvenne con l’Aids prima che cominciasse a estendersi fino a San Francisco e a colpire non più solo il lumpen ma le classi medie e produttive.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu — una novità assoluta — ha recentemente approvato una risoluzione che proclama Ebola una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Le intenzioni di quel testo erano probabilmente buone ma non si fa fatica a capire come esso potrebbe essere strumentalizzato nel senso punitivo che denuncia Prosperi.
In America, la scorsa estate, ai margini del primo vertice Usa-Leaders dell’Africa che si è tenuto a Washington, gli oppositori di Obama hanno rinfacciato duramente al presidente di sprecare energie e dollari per un mondo, appunto l’Africa, che esporta solo guerre ed epidemie. L’argomento usato con più cattiveria era proprio Ebola. È chiaro che Obama, convocando il vertice a imitazione di ciò che da tempo fanno Cina e India, aveva in mente precisi interessi americani da far valere nel continente in tema di sicurezza e risorse. Ma quando c’è di mezzo l’Africa con i suoi «negri» negli Stati Uniti si risvegliano fobie profonde.
Per non sbagliare, Obama il 16 settembre ha annunciato l’invio in Liberia, uno dei paesi più colpiti dal morbo, di un reparto di 3 mila soldati. Non tutti ovviamente sono medici e infermieri. «Mai truppe sul terreno» è uno degli slogan più ripetuti da Obama, ma come mostra, fra il sarcastico e l’amaro, una vignetta pubblicata su uno degli ultimi numeri di Jeune Afrique, «quella» non si può trattare dall’aria. Sia un riflesso condizionato della sindrome militare dominante o un capitolo della ricerca di basi in Africa per Africom, il Comando unificato per le operazioni militari degli Usa in Africa, che oggi è diviso fra Stoccarda e Vicenza, si è dato comunque un segnale eloquente: dall’Africa, non semper aliquid novi come dicevano i romani, ma sempre mali da parare con la forza.
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