Ammalati di amianto

Ammalati di amianto

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È pos­si­bile, in poche ore di un pome­rig­gio d’autunno, can­cel­lare un cri­mine con­tro l’umanità? Per­ché que­sto ha fatto la Corte di Cas­sa­zione mer­co­ledì 19 novem­bre. Ricor­dia­mola que­sta data: resterà un giorno nero per sem­pre e per tutti. Almeno 3.000 sono le morti in Ita­lia a causa dell’Eternit del signor Ste­phan Sch­mi­d­heiny. Altre pur­troppo ne ver­ranno per­ché il meso­te­lioma pleu­rico non cono­sce la pre­scri­zione, lavora nel tempo, per decenni. E non per­dona. Molti di coloro che se lo por­tano den­tro sono con­dan­nati, prima ancora di sapere di esserne stati con­ta­mi­nati (il picco mas­simo di morti si avrà nel 2025!).

I giu­dici che hanno appli­cato nella forma più restrit­tiva i ter­mini for­mali della pre­scri­zione devono avere un ben strano con­cetto del disa­stro ambien­tale, per sta­bi­lire che esso è ter­mi­nato in un giorno pre­ciso del 1986, quando cessò la pro­du­zione negli sta­bi­li­menti ita­liani, anche se dagli impianti con­ti­nua­rono a spar­gersi le mici­diali micro­fi­bre nell’aria. E si con­ti­nuò tran­quil­la­mente la pro­du­zione mor­tale in Canada e in Bra­sile. Chi ha scritto una così disu­mana sen­tenza deve avere una ben strana con­ce­zione del diritto, se ritiene che esso possa con­trad­dire in forma così pla­teale e feroce l’idea più ele­men­tare di giustizia.

Sarebbe però inge­nuo, e in fondo ras­si­cu­rante, limi­tare il senso di que­sta sen­tenza al vuoto di coscienza di un giu­dice. Pur­troppo c’è, in que­sto ver­detto atroce, la per­ce­zione dello spi­rito del tempo, per quell’innato con­for­mi­smo isti­tu­zio­nale che carat­te­rizza la parte peg­giore della nostra magi­stra­tura. C’è il vento gelido di un nuovo sta­tuto del mondo che da tempo viene avanti nei luo­ghi dove si conta e si decide, nelle Can­cel­le­rie e nei Con­si­gli d’amministrazione, nei think tank e nelle cabine di regia dei media. Un nuovo coman­da­mento, che dice che «il denaro è tutto, il lavoro è niente». Anzi, che la vita delle per­sone, che del lavoro è com­po­nente prima, è niente. Null’altro che una appen­dice, per­ché le scelte, tutte le scelte che con­tano, le fa chi pos­siede. Chi inve­ste. Chi ci mette i capi­tali. E ha la forza di com­prarsi tutto, uomini, par­titi, giu­sti­zia, verità, libertà. Com­presa quella di restar­sene tran­quilli in Sviz­zera, con sulle spalle il peso di migliaia di morti.

Non è forse que­sto lo spi­rito delle cosid­dette misure di «aggiu­sta­mento strut­tu­rale» impo­ste dalle Agen­zie glo­bali? O delle mano­vre «sug­ge­rite» dalla troika euro­pea? Non è la filo­so­fia impli­cita del Jobs Act (rinun­cia a diritti reali in cam­bio di ipo­te­tici inve­sti­menti)? O il mes­sag­gio subli­mi­nare lan­ciato dallo spet­ta­colo gro­te­sque della Leo­polda dove il potere imma­gi­ni­fico del denaro l’ha fatta da padrone?

Lo con­fesso: da mer­co­ledì sera sto male. Fisi­ca­mente male. Come se tutti ci fos­simo amma­lati d’amianto, e per quest’assenza di giu­sti­zia ci man­casse, let­te­ral­mente, l’aria, il mondo si fosse chiuso, e tutto ciò in cui abbiamo cre­duto non con­tasse più nulla. Biso­gnerà ben sfon­darla, per non soc­com­bere alla malat­tia, que­sta gab­bia in cui ci hanno chiusi, che chia­miamo con ter­mine ormai fru­sto neo-liberismo, come se fosse solo un’opzione eco­no­mica. Ma che in realtà è ben peg­gio: è un modello di vita che con­trad­dice e distrugge la vita.



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