CANCELLATA PIAZZA TAHRIR

by redazione | 30 Novembre 2014 19:18

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LA SENTENZA che decreta un non luogo a procedere per Hosni Mubarak, i suoi figli e i suoi collaboratori, per l’uccisione di centinaia di manifestanti nel 2011, rovesciando la condanna all’ergastolo comminata nel 2012, è soprattutto una notizia sul nuovo raìs, Abdel Fattah al Sisi.
LA VICENDA egiziana offre una spettacolosa versione in quattro tempi della circolarità della storia: c’è il regime trentennale di Mubarak, trasformato di fatto in una monarchia; c’è la ribellione popolare, sospinta da un’impetuosa voglia di libertà e repressa sanguinosamente, ma forte abbastanza da rovesciare la dinastia di Mubarak; c’è il radicato partito islamista dei Fratelli Musulmani, che si era tenuto in disparte dalla rivolta aspettando l’occasione per far pesare la propria organizzazione e violenza, e prevale nelle elezioni e conquista il governo; c’è l’esercito, da sempre una società a sé nella società egiziana, titolare della forza armata e dei finanziamenti internazionali, che approfitta dell’insofferenza popolare contro l’inetto e triviale governo di Mohamed Morsi e dei Fratelli musulmani, e riporta le cose al punto di partenza, presentandosi come il garante della stabilizzazione contro l’insopportabile emergenza.
Così, fra il primo e il quarto tempo di questo giro di giostra, durata nemmeno quattro anni, primavera popolare di giovani e donne e insediamento islamista legittimato dal voto sono diventati due intermezzi nulli e non avvenuti; salvo che la restaurazione non rimetta in sella il vecchio monarca, ormai impresentabile, ottantaseienne e malato. Il suo successore, sapendo di aver già fatto e di dover rifare molte delle cose che faceva lui, non può nemmeno consegnarlo a una condanna giudiziaria così estrema da coinvolgere la condanna storica. Niente più ergastolo, né per i morti della piazza, né per le accuse di malversazioni e corruzione: resta solo, anche quella ormai scaduta, una condannuccia a tre anni per un episodio di corruzione minore.
L’epilogo del regno di Mubarak viene consegnato alla storia non come la fine di un despota sanguinario, ma come l’uscita di scena di un potente vegliardo incappato in un incidente di percorso: impiegò disinvoltamente i fondi per il palazzo reale… E per converso, nell’iconografia ufficiale, il generale Sisi può farsi gigantografare accanto a Nasser e Sadat, senza l’imbarazzo di apparire il continuatore di Mubarak, e nemmeno il suo affossatore. Tutto questo avrebbe, nonostante il sangue, un’aria da film viennese se l’Egitto non fosse un paese così strategico, e se la situazione internazionale non lo rendesse così urgentemente cruciale. L’avvento di Sisi, nel luglio 2013, ha privato Hamas a Gaza della protezione dei Fratelli musulmani, e del suo unico retroterra. Ritornato affidabile per Israele, l’Egitto è il più autorizzato tutore dell’Autorità palestinese, quando i governanti di Israele si ricordassero che un’autorità palestinese deve esistere. Ed è il più diretto contraltare all’espansione concorrente di al Qaeda e dell’Is, il sedicente Stato Islamico, nella guerra civile libica, in cui già intervengono forze aeree sue e degli emirati.
Insidiato e colpito in casa, specialmente nel Sinai, dal terrorismo dell’Is, l’Egitto è un attore essenziale della coalizione contro il califfato. Sue forze armate affiancano alla frontiera irachena quelle dell’Arabia Saudita, che lo foraggia. Dunque Stati Uniti, dai cui finanziamenti la disastrosa economia egiziana, ma soprattutto l’esercito, sono sempre largamente dipesi, ed Europa, abbracciano nel regime del presidente al Sisi la promessa di un attivismo stabilizzatore di cui, caduti tanti tiranni di famiglia, da Gheddafi in qua, e con la spaventosa offensiva jihadista, si sente un gran bisogno. Così grande da aver fatto passare senza troppi brontolii la liquidazione di Morsi, nonostante fosse stato insediato da una indiscutibile vittoria elettorale. Era successo altre volte, e sempre “a fin di bene”, in Algeria, in Turchia, cosicché forse le democrazie, che hanno loro gatte da pelare, dovrebbero discutere meglio dell’idea, o dell’illusione, che il ripristino della democrazia in paesi provati da decenni di dispotismo e corruzione civile passi immediatamente attraverso il rito delle elezioni.
È ancora più notevole, mi sembra, l’indifferenza pressoché universale con cui sono arrivate da noi le notizie ripetute sui processi condotti contro esponenti dei Fratelli musulmani e finora già conclusi, sia pure in prima istanza, da più di mille condanne a morte. In uno solo di questi processi monstre, nel marzo scorso, le condanne a morte sono state 528. La condanna capitale è stata chiesta anche per l’ex presidente Morsi. Fanatismo e brutalità dei Fratelli non possono cambiare il giudizio su questo uso della giustizia, e il tratto di mare che separa la costa egiziana dalle nostre non può bastare ad affievolirne fino a spegnerlo lo scandalo.
L’investitura internazionale su al Sisi ha appena ricevuto una conferma smagliante nelle visite in Italia, in Vaticano, in Francia. C’è un interesse vitale alla stabilità del Nordafrica e al contrasto all’invasamento jihadista, e c’è una posta economica ingente. L’Egitto di al Sisi si prepara a raddoppiare il canale di Suez. Oltre a risuonargli l’ Aida, si potrebbe auspicare più energicamente un rispetto dei diritti umani, un ripudio della tortura e della stessa pena di morte, e un uso meno strumentale dei tribunali. Dieci giorni fa, un giudice egiziano ha mandato impunito un medico sotto i cui ferri una bambina di tredici anni, Soheir Al Bataa, era morta mentre i suoi organi genitali venivano mutilati. Anche il padre della bambina è stato assolto. Era il primo processo per questo reato, dopo che le mutilazioni genitali femminili — che secondo l’Unicef violentano il 90 per cento delle donne egiziane fra i 15 e i 49 anni — erano state messe al bando, nel 2008. A quel bando, e alla campagna internazionale contro quell’infamia, si era impegnata accanto alla nostra Emma Bonino la signora Suzanne Mubarak, moglie del deposto raìs. Le cose, vedete, sono sempre complicate.
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