Cleveland. La caccia al nero in strada ultimo incubo d’America

Cleveland. La caccia al nero in strada ultimo incubo d’America

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WASHINGTON CI SONO ora altre due candeline nel vento, riparate dentro vasetti di vetro col Sacro Cuore di Gesù, sotto la panchina del parco di Cleveland dove un altro ragazzo nero, colpevole di aver brandito una pistola giocattolo, è stato colpito dalla polizia ed è morto ieri. Due candeline che si uniscono a quella Via Crucis di lumini coasttocoast accesi per ricordare esecuzioni di innocenti e che illuminano il calvario dell’essere neri, da Ferguson nel Missouri, a Brooklyn, a Cleveland, a Oakland in California, alla Florida, a New York. Ovunque l’essere scuri di pelle e giovani rappresenta una possibile sentenza capitale senza giudice, giuria, appello. E senza reati.
La morte del dodicenne a Cleveland, raggiunto da due colpi di pistola dall’agente di pattuglia chiamato da un passante nel panico, è soltanto un’altra storia esemplare di quella che, agli occhi della comunità afroamericana, appare omai una guerra civile, una micro-pulizia etnica lanciata dagli uomini in “bianco e nero”, la polizia, contro i propri figli in nero senza bianco. Basta riascoltare la conversazione fra un anonimo seduto su una panchina del parco e la centralinista del 911, l’ormai famoso numero nazionale per le emergenze, per capire.
«Sono seduto su una panchina del parco Cudell — dice la voce roca di un uomo anziano — e vedo un ragazzo con una grossa rivoltella».
911: «È bianco o nero?».
«Qui ce le stiamo facendo tutti addosso, madam, ci sono madri e anziani come me, non si capisce che cosa voglia fare».
«Credo, ma non lo so, che sia una pistola finta, non vedo il tappino arancione sul buco della canna. È vestito di grigio, con una giacca mimetica ». 911, e tre: «È bianco o nero?».
«È nero», risponde finalmente, con un sussurro, come se quell’uomo sapesse di avere firmato, con la cognizione del colore, una condanna a morte. E stacca la comunicazione.
Pochi minuti più tardi, una volante del Cleveland Police Department raggiunge il parco. Un agente avvicina il ragazzo e gli intima di alzare le mani, il ragazzo ride e estrae l’arma dalla cintola. Partono i due colpi al petto e allo stomaco che lo uccideranno dopo cinque giorni di agonia. L’arma era in effetti un giocattolo, una perfetta riproduzione alla quale lui aveva tolto il tappino arancione.
Ogni esecuzione di strada, o dentro un falansterio oscuro come il “Project” di Brooklyn dove venerdì scorso è stato seccato con un colpo al petto un altro giovane afro che era andato a trovare la ragazza e la loro bambina, ha la propria storia, la propria dinamica, ma ha la stessa invariabile matrice. Se quel ragazzino di Cleveland, a 12 anni neppure un teenager, ha segnato la propria storia “giocando” al duro con la rivoltella giocattolo e dando agli agenti di Cleveland la giustificazione per sparare, niente aveva fatto Michael Brown a Ferguson, per meritarsi l’esecuzione. Nessuna, se non vendere sigarette di contrabbando, era la colpa di Eric Garner, un uomo adulto, soffocato al collo dagli agenti che lo arrestavano a New York, mentre tentava di gracchiare: «Non respiro, dio mio, non respiro».
La matrice è quell’arma a doppia canna che ogni anno uccide più neri americani sotto i colpi della polizia di quanti ne metta a morte il boia con la sua siringa di stato, più di 600 all’anno dal 2000 a oggi, secondo i dati ufficiali del governo federale raccolti da Pro Publica, un centro di ricerca indipendente. È quell’esplosivo che rende un teenager nero 24 volte più esposto a essere abbattuto rispetto a un coetaneo bianco e si chiama paura, versione semilegalizzata del razzismo. È quella, prima della miseria, dall’abbandono di luoghi come il “Project”, il casermone di Brooklyn, dove sarebbe bastato un tubo al neon da 10 dollari sul pianerottolo del settimo piano per salvare la vita di Akai Gurley, colpito nel panico della penombra da un agente. Un ragazzo nero sorpreso a spacciare droga o arrestato per furto o rapina ha 30 volte più probabilità di finire in carcere di quante ne abbia un bianco colpevole degli stessi reati. Dunque le carceri traboccano di detenuti con la pelle scura e questa appare come la conferma che “loro” sono più delinquenti di noi. La stessa dinamica distorta della xenofobia italiana verso “quei criminali” immigrati. È il pregiudizio di colpevolezza, o di intenzioni criminali, che accompagna ogni giovane uomo di colore, che fa fermare auto di lusso sulle autostrade se guidate da neri, nel sospetto che siano macchine rubate. È l’inconscio “profiling”, la definizione pregiudiziale di criminalità che la legge proibisce, ma che nel segreto delle proprie paure non soltanto gli agenti di polizia, ma i cittadini stessi coltivano. Se a questo “pregiudizio di colpa” si aggiunge la ragionevole certezza che chiunque, negli Usa, maschio o femmina, bianco, nero, bruno possa nascondere un’arma da fuoco nel cruscotto dell’auto, sotto il giubbotto, nel calzoni, il “prima spara e poi chiedi” diventa la normalità.
Nella notte delle paure tutti quei ragazzi neri con l’aria un po’ strafottente, con l’andatura un po’ da bulli, con le catene e i ciondoli e i tatuaggi e gli amuleti contro le loro paure ben più reali delle nostre, sono bersagli potenziali, al massimo «tragici incidenti» come hanno commentato il sindaco di New York De Blasio, il capo della polizia di Cleveland Ed Tomba, il sindaco di Ferguson, la cittadina del Missouri in animazione sospesa nell’attesa della sentenza del Gran Giurì sul caso di Michael Brown. Uno che non era povero, non era una sagoma inquietante nella penombra di un casermone, non aveva precedenti penali, non aveva mai neppure marinato la scuola e stava per entrare all’Università. Ma era un giovanotto nero caduto nella Via Crucis delle candeline.



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