La leggenda di Rehana, l’angelo di Kobane
La giovane Rehana spopola su Twitter: avrebbe ucciso più di cento miliziani
La storia di questa ragazza — o meglio, del simbolo — inizia ad agosto, quando lo scontro nella cittadina curda al confine siriano deve ancora accendersi. Il giornalista svedese Carl Drott fotografa una militante dell’YPG che lo saluta con il segno di vittoria. La ragazza racconta: «Vengo da Aleppo, dove studiavo Legge, ma l’Isis ha ucciso mio padre e allora mi sono unita alla guerriglia». All’epoca però non è ancora Rehana. Sul taccuino del reporter svedese restano i dettagli ma non il nome. Che spunterà più tardi, sui media del Kurdistan.
Quando i combattimenti diventano feroci e la situazione per i ribelli a Kobane appare disperata, i giornali di tutto il mondo indugiano sull’azione delle donne. E i simpatizzanti curdi forniscono via web materiale insistendo su un tasto: «I jihadisti temono molto le nostre ragazze». Quelli dell’Isis rispondono irritati o con sberleffi macabri quando ne eliminano qualcuna. Certamente gradiscono poco, anche perché la vittoria che sembrava vicina diventa complicata. Gli assediati sono tenaci. Non possono ritirarsi, alle spalle c’è la nemica Turchia, l’unica risorsa è stare nelle case diventate trincee. Allora ecco la parola chiave: « Rehana ».
Questa volta sono i pro Isis a usarla. Sull’account di Twitter del saudita @alfaisal_ragad è postata una foto cruda: mostra un mujahed che tiene in mano la testa mozzata di una curda. Sostengono che sia proprio lei, la ragazza che ha incarnato la lotta. Ma è davvero così? Il 13 ottobre — come ha ricostruito la Bbc — « Rehana » ricompare. Anzi, sembrerebbe più viva che mai in prima linea ma sopratutto su Twitter. È il blogger indiano Pawan Durani a rilanciare la notizia in Rete. Un’informazione che corre accompagnata da un dettaglio: l’angelo di Kobane ha ucciso «un centinaio di terroristi». L’immagine e la fama crescono insieme all’ammirazione per quello che stanno facendo i curdi. In inferiorità numerica, con poche armi, davanti ad un avversario dotato di cannoni e tank, non sono scappati. E lì c’è l’icona Rehana, vera o finta che sia, ma che rappresenta molte sue compagne.
Un personaggio, quello dell’amazzone misteriosa, presente su altri fronti. Nell’aprile del 2011, quando la Tunisia scende in piazza contro il presidente Ben Alì, i dimostranti vedono cecchini del regime ovunque. E tra loro ci sarebbe anche una donna. Molto temuta. Riescono a catturarla, la buttano giù da un palazzo ma sopravvive. Dopo un ricovero in ospedale, scompare e con lei qualsiasi prova della sua esistenza.
Gli insorti libici a Misurata, invece, denunciano la presenza di tiratrici colombiane, forse ex appartenenti alle Farc accorse in Libia per ricambiare l’appoggio dato a Gheddafi nel corso degli anni. Altra battaglia: Aleppo, gennaio 2013. Insieme ai ribelli dell’Esercito libero spunta una ex insegnante d’origine palestinese. Dice di chiamarsi Guevara in omaggio al Che. Imbraccia un fucile di precisione. La fotografano tra le rovine mentre aspetta il nemico, la descrivono in molti articoli. Il regime di Assad, con l’aiuto della tv russa, risponde mostrando le «Leonesse della Difesa Nazionale» schierate a pattugliare alcune strade di Homs. L’Isis si gioca la sua carta. Nel bastione di Raqqa ha un’unità femminile, la al Kansaa. Sono le poliziotte velate e, per forza, senza volto. Nessuna può raggiungere la leggenda «Rehana».
Guido Olimpio
Articoli correlati
« Quelle ferite aperte nello stato di diritto Gli operai fuori dalla porta »