Sì al Jobs act, ma i dissidenti dicono 33

Sì al Jobs act, ma i dissidenti dicono 33

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Hanno lavo­rato per giorni per inven­tarsi un dis­senso soft, che non facesse troppo male al Pd che resta — nella quasi tota­lità dei casi — il loro par­tito. E invece alla fine hanno sca­te­nato un gran can­can. Ieri alla camera al momento del voto del jobs act la mino­ranza Pd coté non-allineati e irri­du­ci­bili a Renzi non par­te­cipa al voto. Ma le altre oppo­si­zioni li ave­vano pre­ce­duti fuori dall’aula. L’idea è par­tita da Forza Ita­lia, il ten­ta­tivo era solo dimo­stra­tivo, far man­care il numero legale. Non suc­cede, ma alla fine la legge delega passa con soli 316 sì. Per il risul­tato bastano e avan­zano, ma l’effetto è lo stesso pesante. In sei votano no, due di loro sono Pippo Civati e Luca Pasto­rino. In 5 si asten­gono, due sono i civa­tiani Gan­dolfi e Gue­rini. Il jobs act doveva essere un pranzo di gala per Renzi. I ren­ziani erano pronti a sfot­tere la «mino­ranza della mino­ranza». E invece il dis­senso almeno si vede.

In realtà era ini­ziata maluc­cio. In mat­ti­nata negli uffici di Sel il gruppo di punta della mino­ranza Pd incon­tra una rap­pre­sen­tanza della Fiom lom­barda, che aveva chie­sto un con­fronto con Guglielmo Epi­fani, ma l’ex segre­ta­rio Cgil — sosten­gono — non ha nean­che rispo­sto. Dirige l’orchestra il com­bat­tivo Gior­gio Airaudo, ex numero due di Lan­dini. Ma in que­sto momento il drap­pello dem non ha ancora deciso se votare no o uscire dall’aula. Tranne Pippo Civati, che da giorni pre­dica che vuole met­terci la fac­cia. Ma da lui tutti aspet­tano ormai solo l’annuncio dell’abbandono del Pd. Intanto Ber­sani ammette a Radio Radi­cale che pro­nun­cerà un sì sof­fe­rente: «Per la parte che non con­di­vido voto per disci­plina, per­ché sono stato segre­ta­rio di que­sto par­tito e se c’è qual­che legno storto da rad­driz­zare penso che lo si possa fare solo nel Pd». Il pre­si­dente Mat­teo Orfini tenta un ultimo appello alla com­pat­tezza: «Abbiamo rag­giunto una lar­ghis­sima unità sul testo, spero che per rispetto della discus­sione fatta, dei cam­bia­menti appor­tati, del lavoro di ascolto reci­proco e della nostra comu­nità, si voglia fare tutti un ultimo sforzo in aula».

La mino­ranza litiga e ondeg­gia, ma alla fine la deci­sione arriva in una ner­vosa riu­nione all’ora di pranzo. La tren­tina (al conto risul­te­ranno 29) rie­sce a non spac­carsi. Sem­pre al netto di Civati, che invece non sente ragioni. Intanto in aula il jobs act va avanti veloce e il voto arriva in anti­cipo rispetto ai pro­grammi. C’è un motivo: la pro­ce­dura spe­ciale ha dimi­nuito dra­sti­ca­mente gli emen­da­menti (per que­sta ragione e non per gene­ro­sità il governo non ha posto la fidu­cia), nel primo pome­rig­gio cadono quasi tutti gli ordini del giorno. Al momento del voto il Pd schiera Andrea Mar­tella e non il capo­gruppo Roberto Spe­ranza, pro­ta­go­ni­sta della media­zione che ha por­tato una parte dei ber­sa­niani a votare sì. Ste­fano Fas­sina dichiara a nome della «tren­tina» di non poter votare il testo: «Il pro­pa­gan­dato con­tratto unico non c’è e nean­che il disbo­sca­mento della giun­gla dei con­tratti pre­cari». Male anche sugli ammor­tiz­za­tori sociali, male sull’art.18. «Viene pro­spet­tata la pos­si­bi­lità di rein­te­gro in caso di fat­ti­spe­cie di licen­zia­mento disci­pli­nare, ma è un canale vir­tuale, per­ché, le imprese non uti­liz­ze­ranno que­sto canale». C’è del veleno in coda: «le parole del pre­si­dente del con­si­glio cer­ta­mente non aiu­tano a una valu­ta­zione migliorativa».

Airaudo, dai ban­chi di Sel, si rivolge alla mino­ranza Pd che vota sì: «Io non posso non chie­dere a te Guglielmo Epi­fani, mio segre­ta­rio della Cgil, cosa è cam­biato dal 23 marzo 2002 quando tu eri sul palco insieme a Cof­fe­rati?». Ma Epi­fani non è in aula. Poi verso Cesare Damiano, che ha trat­tato con il governo in com­mis­sione lavoro «non posso non ricor­dare che se lui ha potuto fare il mini­stro e siede in que­sto par­la­mento è per­ché alcune cen­ti­naia di migliaia di ope­rai, metal­mec­ca­nici, comu­ni­sti spesso, hanno lot­tato per quei diritti. Lui, come me, non sarebbe mai arri­vato in que­sta camera se non ci fos­sero stati quei lavo­ra­tori che quell’art. 18 l’hanno con­qui­stato scio­pe­rando e battendosi».

Con­su­mato il voto, i 5 stelle si pre­sen­tano ai cro­ni­sti ben­dati, con una stri­scia di stoffa con su scritto «Licen­ziAct». La tren­tina del Pd invece tiene le distanze. Ma si fa vedere: sono Roberta Ago­stini, Tea Albini, Ileana Argen­tin, Rosy Bindi, l’ex mini­stro Mas­simo Bray, Fran­ce­sco Boc­cia, Marco Carra, Angelo Capo­di­casa, Susanna Cenni, Eleo­nora Cim­bro, Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre, Gianni Farina, Ste­fano Fas­sina, Paolo Fon­ta­nelli, Filippo Fos­sati, Carlo Galli, Monica Gre­gori, Maria Iacono, Fran­ce­sco Lafor­gia, Gianna Mali­sani, Mar­ghe­rita Miotto, Michela Mar­zano, Michele Mognato, Bar­bara Pol­la­strini, Maria Gra­zia Roc­chi, Ales­san­dra Ter­rosi, Giu­seppe Zap­pulla e Davide Zog­gia. Più che una nuova area, è l’intergruppo dei non alli­neati (a Renzi). Apprez­zano, giu­rano, «i miglio­ra­menti» otte­nuti dai col­le­ghi rifor­mi­sti, chie­dono però che il segre­ta­rio non pro­ceda in soli­ta­ria. Fas­sina è duris­simo: dele­git­ti­mare chi rap­pre­senta i lavo­ra­tori «non giova alla pace sociale ma ali­menta ten­sioni sov­ver­sive e corporative».

Renzi twitta di feli­cità, ma la festa è rovi­nata. Ora il «chia­ri­mento» arri­verà alla dire­zione di lunedì, insieme anche alla discus­sione sulle regio­nali. Non ci sono prov­ve­di­menti disci­pli­nari all’orizzonte, scherza Cuperlo: «Con­fi­diamo nelle nuove regole sui licen­zia­menti disci­pli­nari e ci aspet­tiamo delle tutele aggiun­tive». Per il jobs act l’ultima parola tocca al senato, dove oggi — coin­ci­denza — si discu­tono le dimis­sioni di Wal­ter Tocci, con­se­gnate pro­prio dopo aver votato il jobs act. La legge delega deve ripas­sare da lì per il sì finale. «Il testo è miglio­rato, Damiano ha fatto un ottimo lavoro», giura il rifor­mi­sta Miguel Gotor. Ma Cor­ra­dino Mineo già annun­cia il suo no. La mag­gio­ranza lì sta in piedi per sette voti.



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