Lo «strappo» della Catalogna

Lo «strappo» della Catalogna

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BARCELLONA Inutile, illegale, una pagliacciata propagandistica, uno spreco di denaro, un voto fai da te degno solo di Ikea. Ma anche un’allegria, un diritto, meno di un referendum però più di un sondaggio, un passo in più verso l’indipendenza. Hanno detto di tutto sul voto di ieri in Catalogna, ma il risultato è che voi, come milioni di cittadini nel mondo, ne state leggendo. Il presidente spagnolo Mariano Rajoy aveva assicurato un anno fa che il referendum non si sarebbe tenuto e invece ieri le code ai seggi di Barcellona calpestavano i veti di Madrid lasciando Rajoy politicamente ferito. Certo non è stato un vero referendum, le schede infilate nelle urne sono decaffeinate, senza forza legale, ma i catalani si sono messi in coda a centinaia di migliaia e hanno testimoniato il proprio dissenso dalla condotta del governo centrale.
Ieri sera, con il 90% delle schede scrutinate, il Governo catalano anticipava che avevano votato 2 milioni e 250 mila persone, oltre il 35% degli aventi diritto, ma considerando le affluenze medie abbastanza per cantare vittoria anche perché i «sì» sarebbero stati l’80,7%. I conti sull’affluenza sono inverificabili perché elaborati nell’esecutivo regionale e forniti da 40 mila volontari che hanno fatto da scrutinatori. Tutti indipendentisti e «controllati» da osservatori internazionali a loro volta separatisti nei loro Paesi. Gli stessi dubbi si potranno coltivare stamane quando verranno diffusi i risultati.
Nonostante ogni maligno sospetto, però, la giornata catalana è stata un esempio di mobilitazione civica. Un po’ di silicone spalmato nella serratura di una scuola e cinque ragazzotti «spagnolisti» che hanno preso a calci un’urna, non hanno intaccato la calma dei separatisti. Le file ai seggi (illegali per Madrid) parlano di tanti, tantissimi cittadini convinti che il resto della Spagna sottragga risorse alla Catalogna per sovvenzionare le regioni povere del Sud, che Madrid neghi le infrastrutture necessarie ad affrontare la sfida della globalizzazione e imponga il suo modello sociale a una nazione, la catalana, orgogliosa della propria lingua, cultura e originalità politica.
La risposta unionista è affidata alle carte bollate. L’UPyD, partito centralista, ha chiesto il sequestro delle urne, la chiusura dei seggi e l’incriminazione del governo regionale per malversazione e disobbedienza. Il magistrato di turno non ha riscontrato né l’urgenza né l’opportunità di ordine pubblico per fermare il voto. Indagherà invece sulle responsabilità dei politici.
Non è l’unico scricchiolio nella coesione istituzionale. L’esecutivo Rajoy aveva domandato ai Mossos d’Esquadra, la polizia locale, i nomi dei presidi che mettevano le scuole a disposizione della «consulta» vietata. Gli agenti hanno disobbedito, limitandosi a stilare l’elenco degli edifici senza identificare nessuno.
Mano a mano che passavano le ore e si allontanava la possibilità di un intervento clamoroso di Madrid, il Presidente catalano Artur Mas alzava il tono della sfida. «Se cercano un responsabile, eccomi, sono io e il mio governo. È stato un successo totale. Oggi abbiamo guadagnato il diritto ad un referendum definitivo, come in un Paese civile». Il Partito popolare di Rajoy rispondeva a muso duro con l’eurodeputato Esteban González Pons: «Fino a che governeremo noi, nessuno spagnolo sarà obbligato ad andarsene dalla Catalogna». Non un buon clima per riaprire il dialogo.


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