Ciudad Jaurez è una città di confine la cui struttura si è profondamente modificata dopo la firma, giusto vent’anni fa, del Trattato di Libero Scambio del Nord America, conosciuto con il suo acronimo inglese Nafta. Si tratta di un confine che fin dall’avvio del Nafta è stato diviso da un muro metallico che corre per centinaia di chilometri, separando mondi più simili di quanto appare. Ma è una frontera ambivalente densa di pratiche politiche: da un lato facilmente transitabile per le merci, dall’altro porosa, così da garantire ai vari mediatori delle migrazioni internazionali di agire sul mercato del lavoro filtrando la circolazione della forza lavoro.
I processi produttivi e sociali che si sono sviluppati a cavallo della frontera sono ormai alla «seconda generazione» per quanto riguarda sia i flussi di merci e di persone sia la costruzione di aree metropolitane. Ciudad Juárez è una città industriale, nel senso più stretto del termine: una miriade di fabbriche di grandi dimensioni letteralmente intrecciate nel tessuto urbano. Nonostante la città abbia 32 parchi industriali dedicati alla produzione, la maggior parte degli stabilimenti non sono separati fisicamente dall’area cittadina, collocandosi a fianco delle abitazioni. Dopo l’ondata di investimenti nei settori tessile e automobilistico degli anni Ottanta e Novanta, oggi è l’elettronica a costituire il principale comparto produttivo, occupando il 35% dei 360 mila lavoratori dell’industria manifatturiera dell’area, secondo i dati ufficiali dell’amministrazione locale.
Nell’area di Ciudad Juárez, classificata come zona economica speciale, le imprese sono esentate dal pagamento delle tasse e dell’Iva. Nel 2013 in tutto il Messico le maquiladoras a regime speciale sono 6.300 e occupano ormai 2,3 milioni di persone, per quasi il 90% in mansioni alla linea di montaggio. È qui che fin dal 2004 opera la Foxconn, che è diventata la più importante impresa di elettronica in Messico. Nel 2011, l’azienda taiwanese esportava per 8,6 miliardi di dollari, vale a dire il 2% del totale delle esportazioni messicane, superata solo dalla General Motors. L’ex ambasciatore messicano in Cina, Sergio Ley, poteva così facilmente dichiarare: «le aziende cinesi hanno bisogno di internazionalizzarsi e la piattaforma idonea per farlo in tutto il mondo è il Messico».
Bassi livelli salariali, importazioni di materie prime e semilavorati senza alcuna tassazione, basso costo dell’energia, benefici fiscali governativi, un’ampia disponibilità di forza lavoro sia qualificata sia dequalificata, un padronato fortemente organizzato a cui si contrappone un’estrema debolezza sindacale sono i fattori principali che hanno attirato decine di multinazionali da tutto il mondo. In quest’area hanno investito aziende globali leader del settore elettronico quali Philips, Epson, Toshiba, Flextronics, ma anche di quello automobilistico, della gomma, farmaceutico e dell’elettrodomestico come Ford, Delphi, Bosch, Goodyear, Johnson & Johnson, Electrolux.
La localizzazione geografica della città permette alle multinazionali di sviluppare una logistica globale poiché si trova in un punto centrale tra est ed ovest, potendo così rivolgersi ai porti statunitensi dell’Oceano sia Atlantico sia Pacifico, rispettivamente Houston e Los Angeles. Questa posizione strategica si è rafforzata a partire dal maggio del 2014, quando Union Pacific ha inaugurato, con un anno di anticipo, un enorme centro logistico, la Rampa Intermodal di Santa Teresa, posto sul versante statunitense e costato 400 milioni di dollari con una capacità di 225 mila container. Il polo è situato a circa trenta chilometri a Ovest dalla metropoli composta da El Paso e Ciudad Juárez ed è connesso con Los Angeles grazie a una ferrovia lunga più di 1.200 chilometri. Si tratta del progetto logistico più importante degli ultimi anni nell’area del Messico settentrionale e garantisce un transito veloce delle merci in un tempo medio di 12 ore.
Nel lato messicano, a San Jerónimo, di fronte a questo centro logistico, sorge il nuovo stabilimento della Foxconn, dove l’azienda intende concentrare la sua intera produzione, ora suddivisa tra tre stabilimenti intorno a Ciudad Juárez. Il primo con una forza lavoro pari a circa 2500-3000 persone si trova nella zona sud-orientale della città e rifornisce esclusivamente la Hewlett Packard. Il secondo è situato a Las Torres, nella zona nord-orientale, e produce principalmente per la Cisco con circa 13.000 dipendenti. Infine quello nuovo di San Jerónimo, a 25 km a Ovest dal centro cittadino, che sorge all’interno di un’area di 240 ettari di terreno, producendo per conto della Dell con una forza lavoro pari, al momento, a 6000-6500 occupati. Nell’area desertica che circonda questo nuovo stabilimento sono previsti imponenti progetti di urbanizzazione per alloggiare la manodopera della Foxconn. Come ci spiega un manager delle risorse umane: «la centralizzazione della produzione nello stabilimento consentirà all’azienda di ridurre i costi, in quanto le economie di scala abbasseranno i prezzi legati al trasporto dei dipendenti, ai servizi di mensa e alla logistica».
L’industria maquiladora locale si avvale di una forza lavoro che proviene prevalentemente dagli Stati messicani di Veracruz, Coahuila e Sinaloa, ma anche di altre zone dello Stato di Chihuahua dove è situata Ciudad Juárez. Tra le maestranze, anche coloro che sono nati qui sono spesso figli o figlie di migranti interni che hanno già sperimentato sulla loro pelle il lavoro nelle maquiladoras. In quest’area fortemente militarizzata sono pochi i migranti che tentano di oltrepassare il confine. Di solito per entrare negli Stati Uniti clandestinamente i migranti puntano piuttosto sulle zone a est molto più rischiose perché desertiche e isolate. Ma Ciudad Juárez è uno dei luoghi privilegiati dove le autorità statunitensi rispediscono forzosamente i migranti senza documenti, indipendentemente da qualsiasi considerazione sulla loro area di provenienza. I migranti rimpatriati vanno a rimpinguare i bacini di forza lavoro priva di proprietà e di reti sociali di sostegno che si trovano di fronte a una sconfortante alternativa: un’occupazione nelle maquiladoras a basso salario, oppure l’adesione a uno dei gruppi criminali che reclutano affiliati attraverso annunci ormai reclamizzati anche nelle principali strade della città. Una scelta, questa, analoga al dilemma in cui si dibattono i giovani locali delle classi popolari.
Negli stabilimenti della Foxconn questa giovane manodopera assembla prodotti elettronici (computer,tablet, desktop, laptop) attraverso catene di montaggio tecnologicamente povere, tranne qualche dispositivo elettronico per controllare il funzionamento del prodotto finale. Per contro, le catene sono molto flessibili e possono essere modificate sulla base delle esigenze dei clienti. Le mansioni banalizzate non richiedendo un processo di apprendimento rendono facilmente sostituibili gli operai, permettendo all’azienda di ruotare continuamente la manodopera su diverse mansioni. Non a caso, gli operai affermano di «fare molte cose, dipende dal giorno». Se le abilità manuali e cognitive richieste sono elementari, l’intensità è spossante: «non è difficile fare quello che ti chiedono, ma è molto stancante stare tutto il giorno in piedi accanto alla linea, facendo la stessa operazione e a volte molto velocemente, tanto che non possiamo perdere tempo neanche per andare in bagno».
Sulla base del flusso di commesse, l’azienda regola strettamente la presenza dei circa 22 mila occupati. Infatti, mentre impiegati, supervisori e manager sono solitamente selezionati e reclutati direttamente dal dipartimento delle Human Resources, gli operai e i capi catena sono assunti attraverso Cassem, un’agenzia di lavoro temporanea. Alla Foxconn non sono previsti premi di produzione e la velocità di esecuzione è frutto di un controllo asfissiante da parte dei supervisori e dei capisquadra. Come racconta un’operaia: «ora lavoro da tre anni e il mio salario non è cambiato. Da due anni i nostri superiori ci dicono che dovrebbe essere aumentato ma non cambia niente… tra i nostri superiori alcuni sono molto despoti, includendo gli impiegati. Ti molestano sempre se tu non ti fermi a fare gli straordinari che, di fatto, sono obbligatori».
Nei normali periodi di attività lavorativa la forza lavoro opera su due turni di 9 ore e mezza che comprendono due pause durante le quali gli operai possono usufruire della mensa dove «di solito ci sono solo schifezze», come afferma uno di essi. L’organizzazione dei turni di lavoro mira a impedire un eccessivo accumulo, da parte dei dipendenti, di ore di straordinario: tuttavia quando le commesse devono essere consegnate l’orario di lavoro si prolunga fino a turni di 14-15 ore. L’estrema variazione degli orari di lavoro, senza alcuna mediazione istituzionale, si traduce per gli operai nell’impossibilità di pianificare gli impegni extra lavorativi e quindi in una fonte di disagio, in particolare per le madri: «cambiano i turni molto spesso… loro non sanno, delle necessità della gente, se hanno bambini, oppure no… e allora ti dicono ‘domani venga prima’ o ‘oggi deve fermarsi per fare ore straordinario’, e devi farlo».
Il duro regime di fabbrica messicano prevede bassi salari, almeno per gli operai, la cui paga base è di un centinaio di euro mensili e arriva a una media di circa 140-150 euro al mese (2500 pesos), solo grazie alle ore di straordinario. In Messico il salario minimo legale è differenziato tra gli Stati del Nord come Ciudad Juárez nei quali si guadagnano 4 euro per otto ore al giorno (o per 7,5 ore notturne) e quelli del Sud che si fermano a 3,75 euro. Inchiodati al salario minimo vi sono ben 6,5 milioni di lavoratori sui 50 milioni di occupati conplessivi.
Il valore dei salari messicani è diminuito in questi anni. In particolare se alla fine degli anni Novanta la media salariale in Messico era circa quattro volte quella della Cina, oggi la differenza si è livellata, quando non invertita. La trasformazione dei rapporti tra i livelli salariali è uno degli elementi che determinano il continuo cambiamento nella geografia della produzione a rete globale. La politica dei bassi salari è attentamente monitorata dalla potente Asociación de Maquiladoras (AMAC), la quale sovraintende a che i suoi associati mantengano una politica salariale uniforme nel tentativo di ridurre sia il costo della forza lavoro sia il turnover lavorativo. Tuttavia, come racconta un’operaia, l’avvicendamento della manodopera è continuo e l’azienda spinge l’agenzia interinale di cui si serve ad allargare continuamente il bacino di reclutamento: «da noi entrano circa cento persone alla settimana, ma è anche tantissima la gente che se ne va. La gente così come entra, se ne va. È per questo che stanno sempre assumendo perché la gente non regge… Quelli che abitano più lontano ed escono alle sei e mezza del pomeriggio arrivano a casa alle nove; non gli conviene venire a lavorare fin qui perché perdono troppo tempo nell’autobus». Il tempo di viaggio è uno dei fattori che spingono gli operai a cambiare fabbrica. Molti impiegano più di due ore per andare e ritornare dal lavoro, e in qualche caso arrivano anche a quattro ore al giorno. Gli autobus che l’azienda mette a disposizione provengono dagli Stati Uniti dove sono stati dismessi sicché sono soggetti a periodiche rotture che allungano a dismisura i tempi di trasporto: «il bus si rompe spesso e la gente è costretta a muoversi a piedi», afferma un operaio.
La localizzazione dell’azienda lontano dal tessuto urbano lega i lavoratori al trasporto programmato dall’azienda, sicché è pure difficile lasciare il posto di lavoro, un elemento questo che è fonte di tensione, tanto che l’unico sciopero degli ultimi anni registrato a Ciudad Juárez è stato proprio alla Foxconn su questa questione: il 20 febbraio del 2010 circa 300 operai del turno pomeridiano hanno appiccato il fuoco all’edificio della mensa poiché l’azienda, per indurre gli operai a svolgere lavoro straordinario, si rifiutava di fare arrivare gli autobus. Il giorno dopo, con il pretesto della scarsità di lavoro, l’agenzia interinale ha iniziato a licenziare gli scioperanti a gruppi di 50 alla volta. All’interno delle aziende i manager hanno mano libera nella contrattazione con una forza lavoro che viene individualizzata anche attraverso l’uso delle agenzie di lavoro temporaneo. Non sorprende quindi che una delle esperienze condivise dagli operai sia un forte senso d’insicurezza rispetto alla continuità della loro attività lavorativa anche a causa della scarsissima presenza sindacale: «non c’è il sindacato, quando è stato fatto lo sciopero, sono venuti a volantinare… ma i capi gli hanno impedito di entrare e poi non li ho più visti», ci racconta un’operaia.
Dopo un importante percorso di sindacalizzazione sostenuto anche da associazioni e organizzazioni non governative durante gli anni Novanta, i sindacati sono stati sostanzialmente marginalizzati. Tra il 2006 e il 2012 nell’ambito della cosiddetta «guerra contro il narcotraffico», promossa dal governo federale messicano e sostenuta anche dalle autorità statunitensi, sono stati uccisi non solo membri delle bande criminali, ma anche decine di attivisti sociali, giornalisti e altri militanti che promuovevano la protezione dei diritti dei lavoratori, delle donne, e della popolazione marginalizzata. Il consolidamento della seconda generazione di maquiladoras costituita da imprese multinazionali è quindi avvenuto grazie anche all’indebolimento delle organizzazioni sindacali e della società civile.L’abilità delle multinazionali di mantenere gli stabilimenti liberi dal sindacato è tuttavia una prospettiva sulla quale operaie e operai non paiono per nulla disponibili ad adagiarsi, consci che la partita può, di nuovo, riaprirsi.
Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata su «il Manifesto» dell’11 dicembre 2014
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