Alla camera spetta anche, secondo l’articolo 78 della Costituzione (che prevedeva anche il senato, oggi giustamente uscito di scena a questo riguardo), la deliberazione dello stato di guerra, a maggioranza semplice. Questa nasceva dal fatto che il sistema proporzionale era implicitamente incorporato nella carta, ovvero faceva parte, insieme al potere reale dei partiti, della costituzione materiale del paese. I costituenti, così, avevano previsto, per la deliberazione dello stato di guerra, che il ruolo centrale spettasse al parlamento (e questo era un enorme passo avanti rispetto allo Statuto Albertino che, nella sua lettera, affidava la dichiarazione di guerra solo al re in quanto capo dell’esecutivo), e che il voto corrispondesse alla volontà della maggioranza reale dei cittadini. Anche in un sistema rappresentativo, una decisione esistenziale straordinaria come la guerra non può che essere espressa nelle forme più apertamente democratiche.
Oggi, invece, questa finalità costituzionale, che fa della guerra non un atto del governo ma un atto del popolo, è seriamente minacciata: con le riforme del sistema elettorale e della Costituzione chi è minoranza reale nel paese non solo vince le elezioni e si assicura una comoda governabilità con una maggioranza premiale, ma si trova anche nella condizione di essere arbitro della pace e della guerra. Il che è davvero troppo. Per questa via si sottrae la guerra al suo giudice naturale (il popolo), e si distorce il premio di maggioranza verso una finalità che non gli è propria: quel premio serve infatti a portare a compimento «in sicurezza» un programma elettorale, e quindi ha la funzione di agevolare il cammino ordinario del governo; ma non può essere pensato per gestire un’eccezionale emergenza come una guerra, che di un programma di governo non può far parte.
Dato quanto dispone l’articolo 11 della Costituzione, infatti, la guerra non è più, per l’Italia, uno degli strumenti ordinari di gestione dei rapporti internazionale, e può quindi configurarsi solo come caso estremo di legittima difesa.
Si dirà che la guerra nella sua forma solenne — con tanto di deliberazione parlamentare e dichiarazione da parte del capo dello Stato — è un relitto d’altri tempi; e che l’esercizio armato della violenza passa oggi attraverso altre vie, ben più duttili e ben più disponibili per il governo e per la sua maggioranza (missioni internazionali a guida Nato e Onu, lotta al terrorismo, esercizio della «responsabilità di proteggere»; e, per l’interno, leggi speciali di pubblica sicurezza); war is over, insomma, nelle sue modalità classiche di relazione ostile fra stati sovrani.
Eppure, nel decidere della pace e della guerra si manifesta tanto clamorosamente l’essenza ultima della sovranità che è impossibile disinteressarsi della faccenda come altamente improbabile; deve esserci un limite, anche simbolico, al di là del quale le esigenze della speditezza, e in ultima analisi della gestione «tecnica» della politica, si fermano. Un limite oltre il quale la democrazia riprende i suoi diritti e le sue forme. Questo limite è la guerra, che proprio per la sua eccezionalità deve essere investita della massima democraticità, dal massimo consenso parlamentare. Questo limite è lo spirito della Costituzione repubblicana, che un emendamento trasversale (a prima firma mia) che a Montecitorio ha finora raccolto 120 adesioni, vuole custodire, proprio modificando, la lettera dell’articolo 78 ed elevando a due terzi degli aventi diritto (perché sia rappresentata la metà reale dei cittadini) il quorum necessario perché la camera deliberi lo stato di guerra.
L’intento è di rimediare l’implicito vulnus costituzionale già da anni introdotto, sul tema della guerra, dalle leggi elettorali maggioritarie, e dare ancora una volta sostanza di civiltà giuridica democratica a quel sapere illuministico, supremamente moderno, che faceva dire a Kant, nel suo scritto Per la pace perpetua: «In uno Stato a costituzione repubblicana la decisione di intraprendere o no la guerra può avvenire soltanto sulla base dell’assenso dei cittadini».