Jürgen Habermas: “Ora in Europa il populismo sta conquistando anche i governi”

by redazione | 2 Dicembre 2014 10:22

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IL FILOSOFO Jürgen Habermas sostiene l’idea di un rafforzamento dell’Unione tra i Paesi del Vecchio Continente e analizza in questo colloquio le contraddizioni dell’Ue, auspicando un cambiamento di rotta. A suo parere, solo un governo economico comune ai Paesi del nocciolo duro europeo sarebbe in grado di combattere le crescenti disuguaglianze sociali in seno all’eurozona.

Habermas, sembra che ovunque l’euroscetticismo stia guadagnando terreno. Siamo in presenza di una crisi dell’Unione europea?
«Sì, l’euroscetticismo guadagna terreno in tutti gli Stati dell’Unione, in particolare in seguito alla crisi in atto da cinque o sei anni: che è bancaria e finanziaria, ma è al tempo stesso una crisi del debito pubblico. Se l’eurozona si rivela fragile, è soprattutto perché a Maastricht, al momento della fondazione dell’Unione monetaria europea, i politici in carica non trovarono il coraggio di trarre le conseguenze da quel passo, e di porre le premesse perché dall’unione monetaria potesse sorgere un’unione politica. Al momento le politiche fiscali, economiche e sociali rimangono prerogative degli Stati nazionali. Ma di fatto, solo un governo economico comune a quello che è il nocciolo duro europeo, impegnato a portare avanti una politica concertata, sarebbe in grado di appianare le non ottime condizioni che incontra l’Unione monetaria europea. Allo stato attuale non si fa abbastanza per evitare almeno che i divari tra le diverse economie nazionali continuino ad aumentare».
Non pensa che l’impasse politica finisca per dar ragione ai liberisti, che auspicherebbero un semplice spazio di libero scambio commerciale?
«Si tratta di vedere se siamo pronti a rassegnarci all’asimmetria che ormai caratterizza i rapporti tra politica e mercato. Una scelta in questo senso comporterebbe non solo l’abbandono del progetto di una democrazia sovranazionale, ma anche la rinuncia al modello sociale che ancora diciamo di voler difendere. Stiamo attenti a non invertire le cause e gli effetti. È in seguito alla liberalizzazione mondiale dei mercati finanziari che i margini di manovra dei governi nazionali si sono ristretti sempre più, e la pressione economica è aumentata a tal punto che gli Stati non dispongono più di livelli di copertura sufficienti per i sistemi di sicurezza sociale. Basterebbe questo a giustificare un’accelerazione dell’integrazione europea. Se ancora esiste una sinistra non rassegnata, il suo impegno andrebbe in questo senso».
Come interpreta la volontà d’indipendenza che si manifesta in Scozia, o in Catalogna?
«Quando le crescenti sperequazioni sociali fanno montare l’angoscia e il senso d’insicurezza nella popolazione, sorge la tentazione di un ripiegamento all’interno dei confini familiari, in cui si crede di poter confidare; e la voglia di aggrapparsi a ciò che è “nativo” — la lingua, la nazione, la storia, ereditate o anche acquisite. Visto in quest’ottica, a mio parere il ritorno di fiamma del regionalismo, in Scozia come in Catalogna o nelle Fiandre, è di fatto, almeno sul piano funzionale, l’equivalente del successo del Front National in Francia…».
Non le sembra che oggi il ripiegamento degli Stati-nazione su se stessi sia all’ordine del giorno?
«Certamente. Nell’Ue stiamo assistendo a un ritorno dei nazionalismi, che non coinvolge solo le popolazioni ma anche i rispettivi governi. Certo, il senso di declassamento, la paura del degrado non si trasformano automaticamente in pregiudizi anti-europei; e non si può neppure dire che questi ultimi siano necessariamente associati a pregiudizi nei confronti di altre nazioni. Questa sindrome, che possiamo definire populismo di destra, nasce innanzitutto da una certa interpretazione della crisi bancaria e del debito pubblico, che anche vari partiti di governo leggono a modo loro. Secondo quest’interpretazione, il fatto che una nazione sia collettivamente “colpevole” o meno del proprio indebitamento si spiegherebbe con le differenze in materia di cultura economica nazionale. Oltretutto, è un modo per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal “destino di classe” — che certo non conosce frontiere — di coloro che in questa crisi sono i vincenti e i perdenti. A riprova di questo ripiegamento sugli interessi nazionali basta osservare il clima sconfortante di rissa del Consiglio europeo. Tutti contro tutti, sembra che il termine solidarietà appartenga a un altro continente. Non c’è da stupirsi che da quel Consiglio non provenga alcun impulso per il rilancio dell’unificazione europea».
Il ritorno a una forma di egemonia impone alla Germania una responsabilità particolare?
«A causa della sua preponderanza economica e demografica, in questi ultimi anni di crisi la Germania ha assunto in Europa un ruolo di leadership che in parte le è stato imposto. Un ruolo che dovrebbe incuterle timore. Certo, questa posizione — anche se si tende a non dirlo — è vantaggiosa dal punto di vista dei suoi in- teressi nazionali. Così, a poco a poco, la Germania viene a trovarsi nuovamente di fronte al dilemma di quella “posizione semi-egemonica” in cui già era venuta a trovarsi a partire dal 1871, e che riuscì a superare solo dopo due guerre mondiali, e grazie all’unificazione europea. Ma proprio la Germania ha il massimo interesse a far uscire l’Unione europea da questa fase del suo sviluppo, in cui le decisioni possono o devono essere prese da un potenza dominante».
I tedeschi pensano che gli altri Paesi debbano fare gli sforzi di austerità che loro hanno compiuto, i francesi preferirebbero una politica di rilancio dell’economia…
«Il fatto che Germania e Francia siano oggi ai ferri corti, non è di buon auspicio per il futuro dell’Ue. In nome dei propri interessi, il governo di Berlino rifiuta di recuperare i ritardi in materia di solidarietà, e non sa decidersi a correggere la propria ostinata politica di risparmio, mentre gli stessi economisti tedeschi chiedono più investimenti. Il governo francese esige a buon diritto questa solidarietà, ma lo fa nell’intento di coordinare tra loro le politiche nazionali in senso tecnocratico. I capi di Stato e di governo dovrebbero superare le schermaglie e mettersi d’accordo su alcuni punti: 50 miliardi di risparmi da un lato contro 50 miliardi di investimenti dall’altro. Ma le due posizioni si bloccano reciprocamente. Da un lato il diniego della solidarietà, dall’altro il rifiuto di pagare il prezzo richiesto per un cambio di politica. E dall’una come dall’altra parte ci si aggrappa a una sovranità dallo Stato-nazione, svuotata di ogni significato».
Ma come conciliare lo spazio europeo comune con l’affermazione crescente di una sfera pubblica mondiale?
«Non dovrebbe essere un problema, se l’Europa mettesse in campo la sua potenza anche a livello mondiale, per civilizzare il capitalismo e instaurare i diritti umani».
Che dovrebbe fare l’Europa per rappresentare ancora un’idea di futuro?
«Non sembra vi sia negli Stati membri un dibattito reale sui problemi concreti dell’Unione, né sulle sue effettive possibilità d’azione. I molti partiti politici e i cittadini che trovano solo da ridire sull’Ue dovrebbero superare il loro disfattismo e avere il coraggio di affrontare una controversia tra posizioni chiaramente definite. Solo un dibattito chiaro, franco e senza sconti sulle diverse possibilità di futuro dell’Ue potrebbe restituire un futuro all’Europa».
© Pascal Ceaux / L’Express ( traduzione di Elisabetta Horvat)
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