Caccia ai jihadisti, 2 arresti al confine italiano

by redazione | 17 Gennaio 2015 9:28

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PARIGI Come una mobilitazione generale. La metafora non è tra le più beneauguranti per via dei suoi richiami guerreschi, ma è vero che all’improvviso le polizie di molti Paesi europei sembrano riscoprire come un sol uomo il pericolo dell’estremismo islamico. Tutto in una notte, o quasi. Mentre a Berlino venivano perquisiti interi quartieri e arrestate tre persone di origine turca che stavano progettando un attentato in Siria, a Bruxelles venivano arrestati cinque reduci dalla Siria, pronti a una sinistra replica del Charlie Hebdo , con i poliziotti al posto dei vignettisti, una caserma al posto della redazione.
Il virus è mutante, dice l’avvocato Thibault de Montbrial, direttore del Cat, Centre d’analyse du terrorisme. E la molteplicità delle minacce impedisce una risposta puntuale. Anche per questo assume un significato meno generico del solito l’offerta britannica di una collaborazione attiva con la Francia, fatta dal premier Cameron durante una conferenza stampa al fianco di Barack Obama, con annesso impegno a lottare contro il terrorismo «ovunque sia».
Il risveglio dopo la strage di Parigi appare davvero collettivo. L’operazione tra Bruxelles e Verviers è stata fatta con la massiccia collaborazione dell’intelligence americana, che sapeva da settimane della minaccia incombente. La mappatura fatta dai servizi segreti occidentali rivela l’esistenza di almeno venti cellule, per un totale di 120-180 uomini pronte a colpire in Francia, Germania, Belgio e Olanda, i Paesi al momento più esposti. A leggere le notizie di ieri veniva una certa ansia, con le perquisizioni a tappeto in Spagna e l’arresto di una ragazza di 18 anni all’aeroporto londinese di Stansted per reati legati al terrorismo.
Non ci sono più confini in Europa, e così due presunti jihadisti in fuga dal Belgio, dopo la sparatoria della scorsa notte, sono stati fermati all’alba poco dopo Chambery, in Savoia. Stavano andando in Italia, attraverso il tunnel del Frejus. Era stata anche diramata una preallerta alle nostre autorità, in caso qualcosa fosse andato storto. Non ce n’è stato bisogno. «Hanno voluto passare le frontiera proprio nel momento in cui i doganieri ricevevano la scheda inviata dal Belgio» racconta una fonte di polizia francese. «E sono stati fermati». Almeno per una volta, un dispositivo di prevenzione che ha mostrato di funzionare. «Purtroppo» dice de Montbrial, «i francesi lo hanno capito per primi e si stanno preparando a cambiare il loro stile di vita, a stare più attenti nei gesti di tutti i giorni. A bassa intensità, ma è pur sempre una guerra».
Nella speranza che la profezia dell’esperto si riveli errata, Parigi è comunque lo spartiacque. Amedy Coulibaly, l’assassino dell’Hyper Cacher di Port de Vincennes, rappresenta il prototipo del terrorista domestico. I dodici fermi effettuati ieri nei dintorni della banlieue di Grigny, dove era nato, riguardano persone dal profilo simile al suo prima del tragico disvelarsi della vocazione jihadista: trafficanti d’armi e rapinatori accusati di avergli fornito sostegno logistico, forse in cambio di denaro.
L’unica figura di rilievo sarebbe il «quarto uomo». È la persona che ha portato Coulibaly alla drogheria ebraica, quasi sicuramente l’autore del ferimento del jogger a Fontenay-les-Roses, poche ore prima dell’assassinio a Montrouge della vigilessa Clarissa Jean-Philippe. Quella fu una specie di prova generale della pistola Tokarev che avrebbe poi sparato sugli ostaggi ebrei del supermercato.
Non ci sono più confini, ma il controllo dei jihadisti di seconda generazione, inseriti nella società in cui vivono e al tempo stesso loro acerrimi nemici, resta un’impresa improba. Mehdi Belhoucine, l’uomo che ha accompagnato in Siria la moglie di Coulibaly, era un dipendente a tempo del Comune di Aulnay-sous-Bois, nella periferia Sud di Parigi. Faceva l’animatore per i bambini delle scuole elementari.
Marco Imarisio
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