L’oro dei ghiacci

by redazione | 27 Gennaio 2015 12:55

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TROMSØ (NORVEGIA). MA COS’ALTRO servirà per fermare le trivelle artiche? Con il petrolio sotto i 50 dollari, dovrebbe zampillare da solo nelle navi cisterna per essere competitivo: estratto dai pozzi ghiacciati dell’Artico «costa tra i 100 e i 130 dollari al barile», dice Nina Jensen del Wwf. E siccome per raggiungere l’obiettivo del contenimento entro il due per cento del surriscaldamento globale non potremo andare avanti a bruciare tutto il petrolio che troviamo, quello artico dovrebbe essere il primo a finire nel cassetto delle missioni impossibili: troppo caro, non fosse semplicemente troppo rischioso. Shell sospese per tutto il 2013 le trivellazioni dopo il disastro alla piattaforma Kulluk, e i conti in rosso per molte grandi, costose e delicate basi off shore ancora improduttive fanno tremare i polsi ai petrolieri. E invece? Dalla grande corsa all’Artico non si scende affatto, e alla porta del Grande Nord ora bussano anche i cinesi. «I prezzi vanno giù ma torneranno su, e ci saremo anche noi qui con i nostri buoni amici e con le nostre nuove rompighiaccio», dice Sun Xiansheng, presidente di China National Petroleum Corporation. E poi, come dice Anatoly Zolotukhin, direttore dell’Istituto russo delle ricerche petrolifere artiche, «non si guarda al futuro con gli occhi di oggi. Vent’anni fa chi avrebbe detto che ci saremmo scambiati informazioni con uno smartphone in tutto il mondo? Le tecnologie andranno avanti, e l’Artico resterà una miniera incredibile», assicura.
Il riscaldamento globale fa male al pianeta, ma nutre gli affari di nuove prospettive, quassù: più si scioglie la calotta, «più le renne pascolate dal nostro popolo faticano a brucare sotto la neve, perché si scioglie e si trasforma in ghiaccio», dice Beaska Niillas, presidente dei Sami norvegesi. Ma più ciò accade, e più diventa semplice e conveniente andare a caccia di pozzi sommersi nell’Artico, dove secondo la Società geografica russa «si produce un decimo del petrolio e un quarto del gas naturale del mondo. Una frazione considerevole delle risorse petrolifere non ancora scoperte si trovano qui».
Alla conferenza internazionale Arctic Frontiers, una settimana fa qui a Tromsø, Jens Ulltveit-Moe, l’ex petroliere riconvertito alle rinnovabili, ha avvertito il governo norvegese che «continuare a coprire l’85% dei costi di trivellazione » per cercare nuovi giacimenti è una follia: «Il giacimento Castberg ha un breaking price (il livello di prezzi in cui inizia a generare profitti) di 80 dollari al barile, e salirà a 120 quando inizierà la produzione nel 2020: è il triplo del prezzo attuale di mercato». Ma per quanto ambientalisti e eco-imprenditori lancino accorati allarmi, «il mondo avrà sempre più bisogno di energia, e per un po’ non potremo fare a meno del petrolio. Si potranno selezionare aree di protezione ambientale », dice Fran Ulmer, presidente della US Arctic Research Commission ed ex inviata di Obama per il disastro DeepWater. Obama proporrà di destinare 556mila ettari della Arctic national wildlife refuge in Alaska a riserva assoluta, impedendo trivellazioni. Tant’è, nessuno è disposto a cedere il passo. Nei giorni scorsi la Norvegia ha affidato nuove licenze per il mar di Barents, aprendo alle esplorazioni petrolifere una nuova quota di Artico libera dai ghiacci. È un’area in cui è molto attiva anche Eni, partner di Gazprom con cui «stiamo valutando come possiamo continuare a cooperare nel rispetto delle sanzioni», dice il vice presidente Franco Magnani ad Arctic frontiers. D’altronde, «non adotteremo gli attuali prezzi del petrolio come base per prendere decisioni di lungo periodo», avverte l’ad della norvegese Statoil, Eldar Saetre.
Poi ci sono i russi: nel 2014 Mosca ha ottenuto dall’Onu il riconoscimento di 52mila chilometri quadrati nel mare di Okhotsk, ricco di giacimenti. «È la caverna di Alì Baba», commentò il ministro russo delle Risorse, Sergej Donskoj. Ma è solo il preambolo della vera battaglia per la dorsale di Lomonosov, che lambisce il polo Nord fino alle coste canadesi: i chilometri quadrati, qui, sono più di un milione. Per rivendicare simbolicamente il diritto sovrano sul Polo, nel 2007 due mini sottomarini russi sganciati da un rompighiaccio raggiunsero il fondale al Polo piantando una bandiera di titanio a 4261 metri di profondità.
Ma il Polo e l’Artico sono anche rotte navali, militari o civili come quella di Nordest che accorcia di 2.500 miglia nautiche il viaggio tra Rotterdam e Shanghai, aggirando la sovraffollata Suez e Malacca infestata dai pirati. Per controllarle servono basi e infrastrutture. Dal 2012, la Marina russa ha iniziato a riallestire la base artica nell’isola Kotelnij, nell’arcipelago di Novosibirsk. Nel 2013 ha restaurato il Comando aeronautico, e nel 2014 ha portato 500 tonnellate di materiale per realizzare il Comando strategico del Nord che avrà 13 basi aeronautiche avanzate e 10 stazioni radar, una flotta «di 150 aerei nuovi e 40 navi militari», tra cui i sottomarini nucleari Borej e un incrociatore lanciamissili. «I tempi di avvicinamento all’America, nostro concorrente geopolitico numero uno, si riducono considerevolmente, e non ci sarà bisogno di chiedere permessi di sorvolo», dice Oleg Matvejcev, docente della Scuola superiore di Economia. D’altronde, per Putin l’Artico è «la maggiore priorità per la difesa nazionale».
E l’Occidente? Lo yacht “Lady Adriana” galleggia placido nell’ex bunker impenetrabile della Nato, nel ventre di un promontorio in- nevato proteso nel fiordo di Tromsø, 350 chilometri a nord del Circolo polare artico. «È la barca del socio di maggioranza: l’ha pagata più della base», sorride Stein Danielsen, affitta auto di Tromsø che due anni fa si è comprato la Base artica per sottomarini svenduta dal governo norvegese. Oggi la Nato si mangia le mani per aver avallato la vendita di Olavsvern, la base per sottomarini più a nord dell’intera flotta occidentale. Fino al 2013 questa magnifica caverna a pelo d’acqua che disegna chilometri di gallerie e cisterne, aprendosi qui a là in enormi sale blindate scavate nel granito, era un gioiello di edilizia militare. «Ma alla fine della Guerra fredda la Norvegia decise che non ci serviva più», racconta l’ex ufficiale della Marina norvegese Leif Armeberg. Il governo la cedette nel 2013 «per 5 milioni di euro: un bell’affare, ne era costati l’equivalente di 400», commentò incredulo il Barents Observer.
Stein Danielsen e soci stanno riaffittando salone dopo salone alle compagnie che prendono d’assalto l’ultima frontiera: “Olavsvern, la tua base petrolifera nell’Artico”, dice la pubblicità strizzando l’occhio alle piattaforme off shore da rifornire e manutenere.
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