Pare proprio che non ci sia nulla da fare. Intorno alla legge sulla diffamazione, già approvata al Senato e oggi in commissione Giustizia alla Camera in attesa degli emendamenti, si registra soprattutto consenso. Perfino i rappresentanti della categoria, quando sono stati ascoltati, hanno dato la netta impressione che, sull’altare del carcere definitivamente abolito, sarebbero disposti ad accettare una legge pesante, che sta mettendo in profondo subbuglio tutto il mondo dell’informazione online.
A scatenare l’allarme è soprattutto la previsione di un meccanismo rigido della rettifica, il “prezzo” che ogni tipo di stampa, dai quotidiani, alle testate registrate sul web, ai libri, alla tv, dovrà pagare per evitare le manette. Basta leggere questa lapidaria indicazione contenuta nel testo: “Il direttore è teall’oblio?
nuto a pubblicare la rettifica gratuitamente e senza commento, senza risposta e senza titolo”. Inutile cercare di far capire che per una pena del carcere rara come l’araba fenice, cadrà addosso a tutti i giornalisti e ai direttori italiani un obbligo di rettifica capestro.
La nuova legge impone di pubblicare la nota del presunto diffamato non solo entro 48 ore, ma soprattutto senza alcuna chiosa. Il tempo estremamente risicato impedirà di poter verificare se la richiesta è fondata oppure se si tratta di un’imposizione pretestuosa e arrogante, come purtroppo avviene molto spesso. Non solo: la negazione del diritto di replica, ai limiti della costituzionalità, mette a rischio il giornalista e il direttore della testata, una figura parafulmine, che risponderà di ogni riga pubblicata, anche anonima.
Se la rettifica non esce, perché viene considerata spropositata e inaccettabile, ma soprattutto falsa dagli autori del pezzo e dai responsabili della testata e ovviamente dagli avvocati difensori, il presunto diffamato potrà rivolgersi al giudice che a sua volta potrà segnalare il caso pure all’Ordine professionale per una rivalsa disciplinare sul cronista. È superfluo aggiungere che, nel caotico mondo del web e delle tv che trasmettono news 24 ore al giorno, una retti- fica così congegnata rischia di provocare la paralisi dell’informazione.
Ma i guai non finiscono di certo qui. Ecco le multe. Un altro capitolo pesantissimo. Fino a 10mila euro per una diffamazione commessa, per così dire, in buona fede. Ma se invece c’è “cattiva fede”, se è stato pubblicato «un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità» (definizione, in verità, un po’ ridicola), allora la multa andrà da 10 a 50mila euro.
In tempi di crisi, una cifra simile potrà avere effetti catastrofici sui magri bilanci delle aziende editoriali e produrrà un solo effetto, una stretta automatica sulle notizie, forme di autocensura, raccomandazioni alla prudenza e alla cautela. La stampa si mobilita, numerose e autorevoli le firme (Rodotà, Annunziata, Gabanelli, Vauro, Iacopino) che stanno sottoscrivendo l’appello sul sito www. nodiffamazione. it promosso da Articolo 21 e da giuristi e giornalisti.