I tre giorni di Parigi

by redazione | 11 Gennaio 2015 18:50

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 PARIGI «Charlie ha sette vite come i gatti, siamo colpiti ma non affondati», dice ora con una vignetta Corinne Rey in arte Coco, disegnatrice che piange la fine della sua famiglia, e non nasconde il rammarico che ci sia voluta una strage simile per avere l’appoggio di tutti. Le campane di Notre Dame che suonano per uno dei giornali più anti-clericali della storia sono il segno definitivo che la Francia intera, adesso, è con loro.
L’assalto a Charlie
Mercoledì mattina è stata Coco, sotto la minaccia dei fucili d’assalto di Chérif e Saïd Kouachi, a comporre il codice della porta della redazione che ha aperto ai terroristi islamici la via per il massacro. Uno dei due fa l’appello, chiama «Charb?», e al cenno del direttore del giornale spara una raffica e lo uccide. I terroristi hanno la lista degli obiettivi, elencano i nomi degli infedeli che a loro avviso hanno offeso il profeta e fanno fuoco. La psicologa Elsa Cayat viene uccisa nel mucchio, unica donna. Coco viene risparmiata, così come Ségolène Vinson, alla quale mettono la canna del fucile alla tempia e dicono «non ti uccidiamo, perché non uccidiamo le donne. Però d’ora in poi leggi il Corano» .
Sono le 11 e 30 di mercoledì, in pochi minuti l’operazione è finita. La scientifica ritroverà 31 bossoli di calibro 7,62 dentro il palazzo di rue Nicolas Appert. I morti qui sono 11: i giornalisti della rivista Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Philippe Honoré, Bernard Maris, il correttore Mustapha Ourrad, Elsa Cayat, l’agente di scorta di Charb, Franck Brinsolaro, l’ospite Michel Renaud, e l’inserviente al piano terra, Frédéric Boisseau. I due terroristi tornano in strada ma vedono avvicinarsi in bicicletta il poliziotto in divisa Ahmed Merabet. Appena sposato, una figlia di un anno. Gli sparano addosso decine di colpi e si avvicinano correndo con calma per finirlo. Tra tante scene insostenibili di questi giorni, è l’immagine forse più spaventosa.
Ieri la sua famiglia ha convocato una conferenza stampa a Livy-Gargan, nella periferia difficile a Nord di Parigi dove Ahmed abitava. Comincia a parlare il fratello, Malek, con tono composto e deciso: «Buongiorno a tutti. Francese, di origine algerina e di confessione musulmana, fiero di chiamarsi Ahmed Merabet, di rappresentare la polizia francese e di difendere i valori della Repubblica, liberté, égalité, fraternité, con determinazione Ahmed ha ottenuto il diploma di ufficiale di polizia giudiziaria, e presto avrebbe lasciato il lavoro in strada. Ahmed…» qui Malek si piega, comincia a piangere. Fa male guardarlo. L’altro fratello gli tocca il braccio per aiutarlo a riprendersi, davanti alle telecamere. «Ahmed — riprende Malek — si era preso l’impegno di vegliare su sua mamma e i suoi, dopo la morte del padre, vent’anni fa. Era il pilastro della nostra famiglia. Mi rivolgo adesso a tutti i razzisti, islamofobi e antisemiti. Dico loro che non bisogna confondere gli estremisti e i musulmani. Mio fratello era musulmano, si è fatto uccidere da falsi musulmani». Contro di lui i terroristi islamici hanno sparato 25 colpi. I fratelli Kouachi scappano sulla loro Citroën C3 nera e riusciranno, per tutta la giornata di mercoledì e la notte successiva, a fare perdere le loro tracce. A lungo la polizia è convinta che con loro ci sia un terzo uomo, che li avrebbe aspettati alla guida dell’auto: sembra essere Mourad Hamyd, 18 anni, cognato di Chérif. Nella notte il suo nome viene diffuso dai media, e i suoi amici cominciano a protestare su Twitter: non può essere lui, ha passato la mattina in classe, con loro. Lui si presenta in commissariato per dimostrare la sua innocenza, viene messo in custodia cautelare. Estraneo alla vicenda, liberato, è ancora sotto choc .
Il secondo giorno
Mercoledì sera, una prima avvisaglia dei nuovi orrori che accadranno nei due giorni successivi. Una donna vede sul marciapiede qualcuno che scruta una cartina stradale a Montrouge, nei pressi di una scuola ebraica. Rimane colpita, perché qualcosa non la convince. Guarda con attenzione il viso di quell’uomo. La mattina seguente, giovedì, prima delle 8 del mattino, a pochi metri da lì un incidente stradale di poca importanza interrompe l’azione di Amedy Coulibaly, il terzo jihadista, amico dei fratelli Kouachi. La poliziotta municipale Clarissa Jean-Philippe, 25 anni, si avvicina all’auto, Coulibaly ne esce in giubbotto antiproiettile, passamontagna, e fucile d’assalto. Spara contro Clarissa, che morirà lì, per strada, nonostante il massaggio cardiaco dei soccorritori, e spara anche contro un altro agente, miracolato: l’unico colpo che lo raggiunge gli trapassa la guancia, è sotto choc ma la ferita non è grave. Il terrorista abbandona l’auto e riesce a fuggire a piedi, gli agenti chiedono informazioni ai testimoni e agli abitanti del quartiere: la donna che la sera precedente aveva notato il tipo sospetto con la cartina va a raccontarlo alla polizia. Le fanno vedere una ventina di foto, riconosce con certezza Amedy Coulibaly. L’ipotesi è che il vero obiettivo del terrorista fosse la scuola ebraica, all’ora dell’entrata dei bambini in classe. Come Mohamed Merah, a Tolosa, due anni e mezzo fa.
La caccia all’uomo
Intorno alle 11 nuovo allarme: il gestore di un’area di servizio Avia, isolata nella campagna a circa 80 chilometri di Parigi, riconosce i due fratelli Kouachi come i rapinatori che fanno benzina e rubano cibo. Sono a volto scoperto, e il benzinaio dice di aver visto dentro l’auto — una Renault Clio grigia — fucili e quel che gli sembra un lanciamissile. Scatta la gigantesca caccia all’uomo con decine di migliaia di agenti, si sparge la voce che i terroristi si stiano dirigendo verso Parigi per compiere altri attentati, e la polizia si schiera ad aspettarli a ogni porta di ingresso della capitale. Ma i fratelli Kouachi non arrivano. Allora le forze dell’ordine provano ad andarli a prendere setacciando un’area di circa 20 chilometri quadrati nella campagna a nord-est di Parigi, poco lontano dal luogo dell’avvistamento alla pompa di benzina.
Il terzo giorno
La caccia va avanti tutta la notte, ma dà i suoi frutti solo la mattina di venerdì, quando i due terroristi vengono intercettati da un posto di blocco. Nella sparatoria Saïd viene leggermente ferito al collo, i due fratelli si barricano nella tipografia di Dammartin-en-Goële, comincia l’assedio. Il titolare dell’azienda, Michel Catalano, viene preso in ostaggio. È lui a mettere un cerotto sul collo di Saïd. Alle 10 e 20, dopo circa un’ora, Catalano viene liberato. Resta nascosto dentro Lilian Lepère, che manderà per ore sms ai poliziotti.
Gli ostaggi di Parigi
Intorno alle 13 di venerdì, a Parigi, Amedy Coulibaly entra di nuovo in azione e prende di mira un supermercato ebraico del quartiere di Vincennes. Fa esplodere una granata e spara con i due fucili, uccidendo probabilmente subito tre persone. Poi, ecco la testimonianza (raccolta da Le Point ) di uno dei clienti che diventano ostaggi, Mickael B., che era andato con il figlio di tre anni a comprare pollo e pane per lo shabbat. Al momento di pagare, sente un’esplosione e vede «un nero armato di due kalashnikov». Prende il figlio per il collo e lo porta verso il fondo del supermercato, assieme ad altri clienti prende la scala a chiocciola e scende nel seminterrato, dove ci sono due cantine. «La nostra non si chiudeva dall’interno. Eravamo terrorizzati». Ma il terrorista ha visto Mickael. Per due volte fa scendere una dipendente del supermercato per dirgli «se non risale con suo figlio, sarà un massacro». Mickael fa come gli viene chiesto, risale le scale con il figlio. Vede un uomo morto in un lago di sangue. Poi assiste a un altro assassinio. Una delle armi di Coulibaly è appoggiata su un tavolo, il terrorista l’aveva lasciata lì perché si era inceppata. Un cliente la vede e si lancia per impadronirsene. Ci riesce, «ma non funziona. Il terrorista si gira e fa fuoco, il cliente muore sul colpo». Mickael B. è atterrito ma riesce comunque a chiamare la polizia, ormai presente con centinaia di auto, blindati, truppe d’assalto. Nello scantinato, intanto, Lassana Bathily, 24 anni, immigrato del Mali, musulmano, riesce a salvare sei ostaggi portandoli nella cella frigorifera. Spegne la luce e stacca il congelatore, mettendoli al sicuro. Prende un montacarichi, riesce a scappare dal supermercato e racconta ai poliziotti quel che sta accadendo all’interno.
Intorno alle 17 di venerdì, a Dammartin, i fratelli Kouachi escono correndo e sparando verso i gendarmi del GIGN schierati e non possono che morire, finalmente, da martiri (secondo loro) come avevano desiderato. A Parigi, nel supermercato, il loro amico Coulibaly ha stipato una grande quantità di esplosivo, forse progetta di fare saltare tutto. «Il terrorista diceva che la morte sarebbe stata la sua ricompensa — racconta ancora Mickael —. Teneva due armi in pugno, e caricatori e scatole di pallottole a portata di mano. A un certo punto si è messo a pregare. Il mio telefonino era acceso, i poliziotti lo hanno sentito. Qualche istante dopo la saracinesca del supermercato si è alzata, abbiamo capito che era l’inizio dell’assalto, ci siamo buttati a terra. Il rumore era assordante. Lui era morto. Tutto finito». Il blitz della polizia è riuscito, ma Parigi piange altri quattro francesi morti. Si chiamano Yoav Hattab, Philippe Braham, Yohan Cohen, François-Michel Saad. Ebrei, uccisi perché ebrei.
Stefano Montefiori
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