I giovani rapper tra Islam e violenza diventati eroi delle banlieue

I giovani rapper tra Islam e violenza diventati eroi delle banlieue

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IL GIORNO dopo, mentre la caccia agli assassini continua, ci si affaccia a dare un’occhiata, dall’orlo, al loro mondo di sotto. Oltretutto, non ne sappiamo la lingua. Né le parole, né la musica. Parliamo, da orecchianti, delle banlieue, dei francesi di seconda o terza generazione, per aver letto qualcosa, aver visto un buon film, e poco più. Argomentiamo — per rassicurarci — che è la scarsezza di quella trafila generazionale a rendere meno impellente il pericolo da noi: e il cielo ce la mandi buona. Io sono ascoltatore cauto di rap, e mi pare di aver capito questo: che la progenie di più antica immigrazione, come in Francia, cresce in un ambiente famigliare o sociale musulmano, di un Islam “normale”, più o meno praticante ma abitudinario, sicché l’incontro col creduto “vero Islam” è per loro una scoperta, di più: una conversione. Il passaggio da quello che gli si rivela ora come un Islam compromissorio e tradito a una fede esigente che investe e travolge la loro intera vita. Un tramite dei più importanti, se non il principale, di questa “conversione” dal “banale” al “totale” Islam, autoindulgente il primo esigente fino alla morte il secondo, è il rap.
La parola “Jihad”, che usiamo ormai come sinonimo di “guerra santa”, vuole avere anche il significato di una “lotta contro se stessi”. Dall’11 settembre, a sedurre a questa conversione è stata la grandiosità di obiettivi e di successi della jihad internazionale, culminati nella pretesa restaurazione del califfato, terra promessa non al pellegrinaggio, ma alla gloria del martirio. È il percorso che da ieri riconosciamo nella vicenda personale di Chérif Kouachi, uno dei due fratelli assassini, oggi trentaduenne, dopo che è venuto fuori il filmato in cui si esibiva nel 2005 in un rap di suo conio e raccontava l’incontro di moschea che gli aveva svelato quanto bene facciano gli attentati suicidi — «è scritto nei testi…» — e quanto bene avrebbe fatto a lui la decisione di andare a morire — «prima avevo paura ». Era sopravvissuto grazie all’arresto: ed è sopravvissuto, almeno fino a quando scrivo, anche alla sacra missione di uccidere Charlie Hebdo. Si capisce che il filmato abbia eccitato i commenti: era la conferma del fatto che gli assassini erano noti, candidati confessi al martirio jihadista. E poi c’è il rap.
Fra i boia dell’Is hanno fatto la loro gran figura i rapper e dj venuti dal Regno Unito — il decapitatore di Foley, si è detto — dalla Germania, dalla stessa Italia (il ventenne Anas El Abboubi, da Brescia alla Siria: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata…»). Sospettato fin dall’origine di essere la lingua misterica e minacciosa del sottomondo afroamericano e musulmano e violento — ne sono ignorante, ma ammiro il talento che vi si profonde — il rap è il genere letterario prima che musicale che più avvicina all’idea sballata che «siamo tutti poeti».
Succede che pochi giorni prima dell’eccidio a Charlie Hebdo il più famoso rapper francese, e piuttosto il profeta dei giovani islamisti, Médine (Médine Zaouiche), franco-algerino di Le Havre, aveva fatto uscire un nuovo brano, intitolato, con un gioco di parole sulla laicità, «Don’t Laïk» — e con un richiamo al suo pezzo più celebre, «Don’t panic (I’m muslim)». Ora si passano al setaccio le sue parole, per rintracciarvi facilmente l’incitamento all’odio e addirittura all’omicidio: sul filo del paradosso, di censurare la libertà di parola nel momento in cui la si rimpiange ed esalta nei veri martiri di Charlie Hebdo. Médine è del resto stretto sodale di quel Dieudonné, i cui spudorati spettacoli antisemiti (antisionisti, direbbe lui) furono, ricordate, vietati dal ministero di Valls.
Ieri Médine, non so quanto ipocritamente, ha pubblicato una dissociazione risentita dal massacro parigino. «…Tengo a testimoniare tutto il mio sostegno alle famiglie delle vittime. Condanno profondamente questo genere di azioni come faccio da dieci anni nella mia carriera artistica. Mi batto proprio contro questa deriva estrema e la denuncio nei miei brani fin dal 2004. Vi esorto a fare altrettanto quali che siano le vostre appartenenze, in nome del carattere sacro della vita umana…». Ho letto il testo del rap di Médine nello stato d’animo nostalgico delle canzoni francesi anarchicheggianti dell’età d’oro, che al confronto sembrano bonarie. Ma la differenza essenziale non sta nella violenza, a meno che si pensi che possa esistere davvero una violenza più radicale che nei versi di Rimbaud: sta nella religione. Quei nostri affabili cantautori controcorrente irri- devano la religione, e almeno le sue cerimonie mondane, e gli autori di Charlie Hebdo ne erano eredi: il rap, cui piace che le parole abbiano un suono di raffica, rivendica contro la società costituita il suo Dio.
«Dio è morto, secondo Nietzsche. Nietzsche è morto, firmato: Dio», così comincia la raffica di Médine. «Crocifiggiamo i laicastri come sul Golgota». La laicità è il nemico numero uno, denunciata come un feticcio bigotto. «Je suis la mauvaise herbe», diceva Brassens, «Je porte la barbe j’suis de mauvais poil», dice il guru jihadista, e ha buon gioco — era già un cavallo di battaglia di Dieudonné — nel rivendicare la poligamia, «meglio dell’amico Strauss-Kahn». Tira il grilletto ma nasconde la mano, per così dire: «Se ti sparo in sogno ti chiedo scusa al risveglio». La libertà delle donne? «Marianna è una Femen tatuata “fanculo Dio” sulle mammelle. E dov’era nell’affare dell’asilo? » (L’affare dell’asilo è l’infinita sequela di polemiche e processi seguita al licenziamento di un’educatrice che voleva lavorare coperta dal fazzoletto islamico…).
Denunciandovi un’istigazione all’odio, con argomenti peraltro intelligenti, un commentatore concludeva ieri che: «Tutto ciò che vuole uccidere la capacità di Ridere discutendo di tutto, per imporre una Serietà indiscutibile, merita la nostra critica più sottile e più forte». È vero, ma anche i guru della verità indiscutibile e delle sue traduzioni, fino allo show delle decapitazioni, riescono a ridere e far ridere. È inevitabile che “noi” gliene diamo qualche buona occasione. Qualcun’altra è evitabile. Tuttavia il nostro côté-Strauss-Kahn, chiamiamolo così, non è una ragione per porgere il collo al coltello. Più probabilmente conoscete il nome di Diam’s, Mélanie Georgiades, franco-cipriota oggi 34enne: i suoi rap erano stati venduti a milioni di copie, si era fatta paladina delle donne, avversaria fiera di Marine Le Pen, poi si è convertita all’Islam, poi ha lasciato il rap, poi ha indossato il velo più ortodosso. Ora vive nella grazia. La domanda più angosciosa rimane: quando succederà che un ragazzo, una ragazza di una qualunque banlieue canterà in un rap trascinante l’orrore per le sue coetanee e correligionarie assassinate e stuprate in nome di Allah in Yemen, in Siria, in Iraq, in Nigeria, e per quelle cui è fatto divieto di cantare e far rumore coi propri passi in Afghanistan?


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