Il Leone del Kurdistan “Vogliamo il nostro Stato”

by redazione | 30 Gennaio 2015 12:01

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KIRKUK. ACHE punto è la guerra con l’Is? Nel Kurdistan iracheno, il più efficace punto di osservazione, si hanno impressioni diverse. I confini della regione autonoma, allargati a Kirkuk, sembrano saldamente tenuti dai peshmerga curdi: ma il territorio riguadagnato in Iraq è solo l’1 per cento, secondo il comando Usa. Lo Stato Islamico tenta ancora attacchi ambiziosi, come a Gwer, avamposto della capitale Erbil: attraversato di sorpresa il fiume Zab, gli assalitori sono stati respinti e hanno lasciato sul campo 200 morti. 120 sono caduti fra i difensori curdi (la cifra fornita ufficialmente è molto più bassa). «Tra i morti dell’Is — dice Jasim Mohammed Kharend, agricoltore e peshmerga — c’erano quattro stranieri non circoncisi, dunque non erano musulmani». Si parla molto di una controffensiva della coalizione per Mosul, e si fa la data della primavera: la preparazione dell’esercito arabo-iracheno «ha ancora bisogno di mesi».
Nel governo di Erbil più impellenti sono le voci su una resa dei conti con l’Is a Qamishli, capitale del Rojava, la regione curda siriana. La sconfitta del Califfato a Kobane non fa piacere alla Turchia, che già vede accantonare la cacciata di Assad (questo è uno smacco per tutti): Erdogan si è affrettato a riescludere una regione autonoma curda in Siria. Ma Qamishli, se è al confine turco, è anche vicinissima a quello curdo-iracheno, sicché i peshmerga, diversamente che a Kobane, non avrebbero bisogno di lasciapassare per intervenire accanto all’Ypg (l’esercito nazionale del Kurdistan siriano). Il Kurdistan (formalmente) iracheno affronta un paio di problemi di fondo, oltre all’inadeguatezza irrisolta degli armamenti. Nello Shingal (Sinjar in arabo), dove l’avanzata dell’Is fece strage di yazidi e ne rapì bambine e donne, i combattenti curdo-siriani dell’Ypg e curdo-turchi in esilio del Pkk, politicamente affini, furono i protagonisti del soccorso, rimediando a un brutto sbandamento iniziale dei peshmerga. Oggi premono per una propria amministrazione cantonale, che il Kurdistan vede come una sottrazione inaccettabile alla sua integrità territoriale.
La controversia rinnova la minaccia di un conflitto fra curdi, dannazione di questo gran popolo senza Stato. E resta il cuore del problema del Kurdistan iracheno, ancora diviso in due grandi partiti-dinastie, il Pdk, radicato a Erbil e Dohuk, e il Puk, le cui roccaforti sono Suleimania e Kirkuk. Già protagonisti di una sanguinosa guerra civile fra il 1994 e il 1998, oggi governano insieme, ma conservando le rispettive prerogative, milizie comprese. La prodezza dei peshmerga aveva a che fare con una condizione di lotta partigiana largamente superata, anche se di prodezza c’è sempre bisogno, e l’addolcimento della vita cittadina non le si addice.
Il Kurdistan, mi dice Kosrat Rasul Ali, deve avere una forza armata unitaria e regolare. È uno dei personaggi leggendari che queste parti infelici del mondo ancora ospitano, scampato a una quantità di battaglie e di ferite, di cui porta i segni; e vi ha perso due bambini. Sta giocando una partita a scacchi con un avversario giovane e mi chiede di lasciarlo concludere: è lui, “il leone del Kurdistan”, a perdere, senza prendersela.
Parliamo delle armi, comprese le italiane: sono davvero ferri vecchi? Ride: può darsi, dice, ma buone lo stesso. Tutto è buono. Daesh (acronimo arabo che sta per Stato Islamico) combatte con armamenti evoluti. Certo che c’era bisogno dei bombardamenti: noi non abbiamo nemmeno un aereo. Perderanno, dice. Hanno potuto fare la loro avanzata da smargiassi perché il conflitto fra sciiti e sunniti aveva distrutto un esercito iracheno che era stato forte.
Chiedo: ma vi accontenterete di riprendere il vostro territorio, a costo di avere una lunghissima frontiera con un vicino come l’Is? La risposta, senza i suoi precedenti, sarebbe da sbruffone: «Se facessero sul serio, in 48 ore posso liberare Mosul. Le difese del-l’Is sono concentrate in due punti, a sud-ovest di Mosul e nella direzione di Shargat e Tikrit. Bisogna attaccarli in più punti. Conosco il terreno: dove hanno piazzato la principale fortificazione, Kasik, feci il mio servizio militare, nel ‘75». E i famosi “boots on the ground”, ossia l’intervento di terra? «Se lo fanno sono i benvenuti, altrimenti dovranno bastare curdi e iracheni. La maggioranza dei sunniti sta ancora dalla parte dell’Is, per il momento… almeno di giorno», ride. «Nel 1991, erano molti i curdi pro-Saddam, e di notte stavano con noi: ora è la volta dei sunniti sotto l’Is. Alla fine io liberai Erbil nel ‘91, senza colpo ferire. Noi veniamo dalla guerriglia, combattevamo in 4 mila contro 200 mila o più. È una scuola di coraggio e di dedizione. Ma senza un esercito regolare non avremo mai uno Stato. Col presidente Barzani abbiamo appena deciso, nel villaggio di Suhaila: arruoleremo i volontari, tra i 18 e i 22 anni, cui dare una buona paga e armi moderne, perché sia un esercito curdo, e non una milizia di partito. I nostri grandi veterani saranno d’accordo, hanno orgoglio ma anche lucidità. Le nostre rivalità sono una versione del perenne settarismo di famiglia socialista».
Be’, dico, se vuoi ti racconto un giorno qualunque del Pd italiano: e voi del Puk vi siete fatti portare via Suleimania da una scissione. Ho visto però che i commenti che deplorano queste divisioni aggiungono spesso: “A parte Kosrat…”. «Mi rispettano perché sono figlio di nessuno». Gli faccio la mia solita domanda: in questa liquidazione di confini, voi mirate a farvi il vostro Stato, o riuscite a immaginare una nuova geografia confederata del Medio Oriente, come l’Europa dopo il 1945? Le due cose, dice, Stato e Confederazione. Ma per lui lo Stato viene prima. «Con l’appoggio di Stati Uniti, Europa e Israele, e oggi sembra che se ne vadano persuadendo, potremo avere l’indipendenza. Si può lasciare un popolo di 50 milioni senza uno Stato? ».
Intanto succedono cose imbarazzanti: la coalizione si incontra a Londra e non invita il Kurdistan. Ufficialmente c’è l’Iraq. Però l’Is insulta i curdi come «i cani degli infedeli»: e oltretutto i cani qui sono tristemente malvisti. I capi degli infedeli, da Renzi, il primo a venire, alla ministro della Difesa tedesca Ur- sula von der Leyen, qui assidua, continuano a congratularsi: «Voi combattete per noi». Cortocircuiti diplomatici, sui quali Barzani alza le spalle: «Stiamo ancora aspettando l’invito di Londra».
Sono tornato a Kirkuk, posta della partita sul petrolio: in agosto era rischioso, ora è una trasferta tranquilla. Il mercato brulica di gente animali e veicoli di ogni sorta. La suggestiva Cittadella è sempre in rovina, ma riaperta al pubblico. La pipeline con il Mediterraneo turco (e un giorno, chissà, curdo…) si raddoppia, e la produzione va, benché ridotta dal mercato e dallo stato pietoso degli impianti. La Exxon ha allungato le mani sul futuro (gli italiani esclusi perché stanno a Bassora). L., liceale sedicenne, dice che sì, lei e le sue amiche parlano molto del Daesh, si dicono che devono essere pronte a fuggire. Chiedo a Kosrat di Kirkuk: tornerà in discussione, quando l’Is fosse debellato? Il ritorno di Kirkuk al Kurdistan è un fatto compiuto, dice. «Saddam distrusse i villaggi curdi e finanziò l’insediamento di famiglie arabe, che continua ora per l’immigrazione di sunniti in fuga: i curdi sono la maggioranza, ma si sono ridotti. Purtroppo fra gli arabi c’è un forte sciovinismo, come c’era fra i serbi. Io paragono quello che è successo in Iraq dopo Saddam alla ex Jugoslavia. E penso che il peggior governo curdo per noi valga più del miglior governo arabo-iracheno». Parliamo del Pkk: sono curdi, sono oppressi, dice. «Per quanti errori abbia fatto, Ocalan è in galera da quindici anni. Sono grandi combattenti, e senza di loro in agosto l’Is non sarebbe stato fermato sul Sinjar. A Kobane abbiamo pareggiato le cose». In una caserma vicina al fronte, uno dei pochi generali curdi di formazione accademica, nell’esercito iracheno, spiega che la rivalità fra Pdk e Puk spinge perfino all’accaparramento delle armi. Gli istruttori sono utili, dice, ma occorre tempo, e i peshmerga sono abituati alle armi di produzione russa: gli Rpg, per esempio, molto meno efficaci dei razzi anticarro Milan, di brevetto tedesco. L’Is ha combattenti sperimentati nella lunga pratica siriana, militari di professione iracheni, e mercenari. Gli dico che sono sorpreso della libertà con cui qui parlano delle operazioni militari: ride, ormai si sa tutto, fra cellulari e internet. Infatti: quando la fotografa comincia a fotografare i peshmerga, si mettono a turno in posa con lei per i loro telefonini, per immortalarsi su Facebook, in una pausa fra uno scontro a morte e un altro.
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