In piazza contro Charlie il paradosso della Cecenia fabbrica di jihadisti globali

In piazza contro Charlie il paradosso della Cecenia fabbrica di jihadisti globali

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LA FOTOGRAFIA di Grozny permette di misurare il punto cui è arrivato il paradosso ceceno. Una folla enorme (un milione, secondo le autorità cecene, cui piace strafare, 800 mila, dicono altre fonti) attorno a una moschea enorme (la più grande d’Europa): così la risposta all’appello di Ramzan Kadyrov contro la copertina di Charlie Hebdo , «volgare, immorale e svergognata», parole non troppo diverse da quelle urlate nelle piazze aizzate contro i vignettisti francesi in Niger, in Pakistan, in Giordania e altrove. Esagerazione a parte, il sottopadrone ceceno — il padrone è Putin — aveva bisogno di una rivalsa. Lo scorso 4 dicembre un commando di ribelli aveva occupato la Casa della Stampa nel cuore della capitale e tenuto testa a lungo alle forze del regime, uccidendo 14 militari e ferendone una quarantina, e guastando la festa a Putin alla vigilia del discorso alla nazione. I ceceni di un tempo menavano un doppio vanto: di ragionare ciascuno con la propria testa, e però di diventare un sol uomo di fronte ai russi. Tutto in malora: ora sono ceceni contro ceceni, e divisi in due greggi, l’uno al servizio dei russi, l’altro che ha giurato fedeltà al sedicente Califfato. I ceceni, donne e uomini, che stanno altrove, sono spogliati di ogni voce.
Ma il destino paradossale di questo piccolo popolo (un milione e 250 mila) è anche lo specchio del paradosso universale. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, era appena andato alla manifestazione di Parigi, e se ne era detto impressionato. Non tanto da impedire che in Russia si rincarassero minacce contro espressioni “blasfeme”, e che a Grozny si mettesse sottobraccio un cordone che scimmiottasse quello parigino, vescovi ortodossi compresi. La tragedia cecena, costata dal ‘94 decine di migliaia di morti, fece passare nel corso di due “guerre” successive i suoi combattenti dalla secolare rivendicazione nazionale a quella islamista.
Fu là, nel trapasso fra la “prima” la “seconda” guerra, che l’emiro Khattab trascinò i suoi ospiti ceceni, a cominciare da Shamil Basaev, dall’indipendentismo caucasico alla jihad islamista: «Non è più una questione cecena o caucasica, è la questione musulmana! ». Da allora si è compiuto un passaggio di generazione, e di epoca. Sentire nei filmati di ieri in sottofondo alle litanie devote il canto dell’antico girotondo del lupo ceceno piegato all’omaggio al protettore russo era davvero sconvolgente. D’altra parte, Khadyrov mise centomila ceceni a sfilare nelle strade di Grozny per festeggiare il compleanno di Putin. L’assalto spettacolare del 4 dicembre è servito ai suoi autori e committenti a sfregiare la pretesa di Putin e Kadyrov di aver domato l’opposizione («zombie», li chiama) e normalizzato il paese. «50 mila turisti nell’anno scorso! ». Allo smacco del 4 dicembre, Kadyrov reagì proclamando che avrebbe cacciato dal paese le famiglie dei “terroristi” e raso al suolo le loro case, e ha cominciato a farlo: rappresaglia illegale per la stessa legge russa (e tuttavia amaramente simile a quelle praticate dal governo israeliano).
Ma il grosso dei combattenti irriducibili ha nutrito una diaspora eccitata, il cui ritorno incombe come una bomba a orologeria sul Caucaso settentrionale. E non sono, come i foreign fighters, gente andata in Siria o in Iraq a imparare a uccidere, ma a insegnare. Nell’Is i miliziani caucasici sono, si dice, più di 2.500, e i loro capi, come il leggendario e famigerato Omar al Shishani (“il Ceceno”, georgiano di madre cecena, dato tante volte per morto) hanno un ruolo di comando decisivo. Non solo: è successo a un paio di generazioni di ceceni che non hanno conosciuto se non la guerra più feroce di tramutarsi in una torma a metà fra mercenaria e volontaria: ci sono ceceni dal lato dei separatisti di Donetsk (il “battaglione della morte”) e altri ceceni dal lato di Kiev in Ucraina, così come c’erano stati ceceni a far da prima linea ai russi in Afghanistan, prima di rientrare e diventarne acerrimi nemici. Sono di origine cecena i jihadisti uccisi dalla polizia in Belgio, appena rientrati dalla Siria, e sono ceceni e daghestani, secondo le autorità tedesche, i membri della cellula jihadista appena scoperta.
Oggi Kadyrov e i ceceni jihadisti si contendono la bandiera dell’Islam: quella nera del Califfato contro il despota che si proclama paladino del Profeta oltraggiato nella moschea dedicata a suo padre e inaugurata con Putin nel 2008. Abbiamo assistito, e non è finita, a un giro del mondo in dieci giorni, in cui ogni effetto diventava causa del disastro successivo. La manifestazione di Parigi aveva segnato un traguardo memorabile per la nostra parte di mondo, e ha fatto da punto di partenza per l’insorgenza di un’altra parte. La verità maggiore della guerra asimmetrica non sta più nei mezzi diversi usati dai contendenti — anche i più eterodossi si vanno prendendo un territorio, una caricatura di Stato, e una vera armata, come l’Is in Siria e Iraq, o in Libia, come Boko Haram a cavallo fra Nigeria, Camerun e Ciad, come Al Qaeda nel Corno d’Africa o i taliban in Afghanistan. Sta nella molteplicità dei fronti, che si scompongono e riaggregano come in un caleidoscopio, o piuttosto come in un enigma mortale. Della capra dei cavoli e del lupo, o dell’aragosta del polipo e della murena. L’enigma mortale aveva tre angoli — due soli erano il duello, o la guerra di armate opposte. Oggi sono molti più che tre, in un funesto gioco di carambola. All’inizio c’è una vignetta danese, alla fine… Che cosa, alla fine? Intanto, dalla Bastiglia a Grozny passando da Lavrov nel cordone parigino, a Putin che vieta la ristampa della copertina, a Kadyrov che annuncia la vendetta agli ucraini che hanno elogiato Charlie e ai disegnatori parigini, i quali d’ora in poi si dovranno aspettare l’attacco di interi continenti…


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