Israele-Hezbollah, un giorno di guerra
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GERUSALEMME I «fulmini devastanti» minacciati dai generali iraniani si sono materializzati in sei razzi Kornet sparati contro una pattuglia israeliana. Il primo ha colpito il veicolo alla testa del convoglio (due militari uccisi), gli altri le jeep al seguito: i soldati sono riusciti a saltare fuori prima dell’impatto, i sette feriti non sono gravi.
Lo stato maggiore e l’intelligence aspettavano la risposta all’attacco di dieci giorni fa, quando un missile di Tsahal aveva centrato dentro la Siria il pick-up che trasportava sei miliziani di Hezbollah e un generale di Teheran. Aspettavano e provavano a indovinare il possibile bersaglio, era chiaro che l’operazione sarebbe stata condotta dall’organizzazione sciita libanese su mandato degli iraniani.
Martedì due razzi katiusha sono esplosi sul Monte Hermon, le piste da sci sono state evacuate, gli analisti non l’hanno considerato sufficiente per la vendetta proclamata. La vera operazione è quella di ieri: i Kornet sono stati lanciati da quattro chilometri di distanza, i puntatori laser hanno fatto da mirino, l’obiettivo era uccidere, non provare a rapire i soldati com’era successo nell’estate del 2006.
L’artiglieria ha bombardato le postazioni di Hezbollah nel sud del Libano, sono le aree al confine dove stazionano anche i soldati delle Nazioni Unite: lo spagnolo Francesco Javier Soria Toledo è rimasto ucciso dal fuoco israeliano, Madrid chiede un’inchiesta.
Sono le perdite più gravi inflitte da Hezbollah a Israele sul fronte nord dal conflitto di nove anni fa e il governo sta ancora decidendo come reagire. Il premier Benjamin Netanyahu promette «i responsabili pagheranno», considera coinvolti il Libano, la Siria e l’Iran. Malgrado le pressioni di Avigdor Lieberman — il ministro degli Esteri che invoca una «risposta sproporzionata» — il premier sembra voler raffreddare la situazione: gli israeliani hanno combattuto contro Hamas per sessanta giorni l’estate scorsa, il Paese è in campagna elettorale (si vota a metà marzo).
Hezbollah ha rivendicato l’imboscata, non ha lasciato ambiguità sugli autori, ha voluto dimostrare che l’azione del 18 gennaio non poteva passare senza una rappresaglia. Eppure sembra aver calibrato come — e soprattutto dove — colpire. I militari israeliani (i due caduti sono il capitano Yochai Klengel e il sergente Dor Nini) si muovevano vicino al villaggio di Ghajar, è la zona delle fattorie di Sheeba, venticinque chilometri quadrati che Hezbollah considera sottratti al Libano e che le mappe delle Nazioni Unite attribuiscono alla Siria come il resto delle alture del Golan conquistate dagli israeliani nella guerra del 1967 e annesse dal parlamento nel 1981.
«È territorio conteso dove esistono regole non scritte: una di queste è che qui il conflitto tra Israele e Hezbollah non si ferma mai» scrive su Times of Israel l’analista militare Mitch Ginsburg. Fa notare che altri obiettivi avrebbero obbligato Netanyahu a quell’operazione militare massiccia che i miliziani e l’Iran vorrebbero comunque evitare. L’esercito irregolare di Hezbollah è impegnato in Siria e una guerra con Israele in questo momento potrebbe solo avvantaggiare i ribelli, portare all’indebolimento e alla caduta del regime di Bashar Assad.
«Forse è finita così: occhio per occhio» commenta la ricercatrice Orit Perlov. La decisione dell’esercito di permettere la riapertura della stazione sciistica sul Monte Hermon sembra voler mandare il segnale che per ora bastano i trentacinque obiettivi distrutti dall’artiglieria subito dopo l’attacco.
Gli ultimi dieci giorni confermano allo stato maggiore quello che stava diventando evidente con il prolungarsi della guerra civile siriana: le alture del Golan — tranquille per quasi cinquant’anni — sono il nuovo fronte dello scontro con Hezbollah e gli iraniani. Tra i sette miliziani uccisi il 18 gennaio, c’era Jihad Mughniyeh — figlio del comandante eliminato dagli israeliani a Damasco nel 2008 — che sarebbe stato incaricato di organizzare le cellule e le squadre da muovere per colpire dall’altra parte della frontiera.
Davide Frattini
Lo stato maggiore e l’intelligence aspettavano la risposta all’attacco di dieci giorni fa, quando un missile di Tsahal aveva centrato dentro la Siria il pick-up che trasportava sei miliziani di Hezbollah e un generale di Teheran. Aspettavano e provavano a indovinare il possibile bersaglio, era chiaro che l’operazione sarebbe stata condotta dall’organizzazione sciita libanese su mandato degli iraniani.
Martedì due razzi katiusha sono esplosi sul Monte Hermon, le piste da sci sono state evacuate, gli analisti non l’hanno considerato sufficiente per la vendetta proclamata. La vera operazione è quella di ieri: i Kornet sono stati lanciati da quattro chilometri di distanza, i puntatori laser hanno fatto da mirino, l’obiettivo era uccidere, non provare a rapire i soldati com’era successo nell’estate del 2006.
L’artiglieria ha bombardato le postazioni di Hezbollah nel sud del Libano, sono le aree al confine dove stazionano anche i soldati delle Nazioni Unite: lo spagnolo Francesco Javier Soria Toledo è rimasto ucciso dal fuoco israeliano, Madrid chiede un’inchiesta.
Sono le perdite più gravi inflitte da Hezbollah a Israele sul fronte nord dal conflitto di nove anni fa e il governo sta ancora decidendo come reagire. Il premier Benjamin Netanyahu promette «i responsabili pagheranno», considera coinvolti il Libano, la Siria e l’Iran. Malgrado le pressioni di Avigdor Lieberman — il ministro degli Esteri che invoca una «risposta sproporzionata» — il premier sembra voler raffreddare la situazione: gli israeliani hanno combattuto contro Hamas per sessanta giorni l’estate scorsa, il Paese è in campagna elettorale (si vota a metà marzo).
Hezbollah ha rivendicato l’imboscata, non ha lasciato ambiguità sugli autori, ha voluto dimostrare che l’azione del 18 gennaio non poteva passare senza una rappresaglia. Eppure sembra aver calibrato come — e soprattutto dove — colpire. I militari israeliani (i due caduti sono il capitano Yochai Klengel e il sergente Dor Nini) si muovevano vicino al villaggio di Ghajar, è la zona delle fattorie di Sheeba, venticinque chilometri quadrati che Hezbollah considera sottratti al Libano e che le mappe delle Nazioni Unite attribuiscono alla Siria come il resto delle alture del Golan conquistate dagli israeliani nella guerra del 1967 e annesse dal parlamento nel 1981.
«È territorio conteso dove esistono regole non scritte: una di queste è che qui il conflitto tra Israele e Hezbollah non si ferma mai» scrive su Times of Israel l’analista militare Mitch Ginsburg. Fa notare che altri obiettivi avrebbero obbligato Netanyahu a quell’operazione militare massiccia che i miliziani e l’Iran vorrebbero comunque evitare. L’esercito irregolare di Hezbollah è impegnato in Siria e una guerra con Israele in questo momento potrebbe solo avvantaggiare i ribelli, portare all’indebolimento e alla caduta del regime di Bashar Assad.
«Forse è finita così: occhio per occhio» commenta la ricercatrice Orit Perlov. La decisione dell’esercito di permettere la riapertura della stazione sciistica sul Monte Hermon sembra voler mandare il segnale che per ora bastano i trentacinque obiettivi distrutti dall’artiglieria subito dopo l’attacco.
Gli ultimi dieci giorni confermano allo stato maggiore quello che stava diventando evidente con il prolungarsi della guerra civile siriana: le alture del Golan — tranquille per quasi cinquant’anni — sono il nuovo fronte dello scontro con Hezbollah e gli iraniani. Tra i sette miliziani uccisi il 18 gennaio, c’era Jihad Mughniyeh — figlio del comandante eliminato dagli israeliani a Damasco nel 2008 — che sarebbe stato incaricato di organizzare le cellule e le squadre da muovere per colpire dall’altra parte della frontiera.
Davide Frattini
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