Le mappe cinesi di un potere imperiale

Le mappe cinesi di un potere imperiale

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Può una nazione entrata nell’era «dell’ambizione» – una tra le tante epo­che della sua mil­le­na­ria sto­ria — svi­lup­parsi in modo paci­fico, senza entrare in con­tra­sto con altri paesi nella sua area di influenza e più in gene­rale nel mondo intero? Sono le domande che si pon­gono, in maniera diversa, due libri sulla Cina, usciti recen­te­mente. Il primo è ad opera di uno dei più impor­tanti – e bril­lanti — cor­ri­spon­denti stra­nieri in Cina, Evan Osnos, del New Yorker.

Osnos ha scritto sul gigante cinese da Pechino, dal 2005 al 2014, con uno stile incon­fon­di­bile, fatto di pre­ci­sione, grande cono­scenza del paese e pos­si­bi­lità di dipa­nare rac­conti suf­fi­cien­te­mente lun­ghi, in ter­mini di parole, per spie­gare feno­meni com­plessi. Il suo libro, The age of ambi­tion, cha­sing for­tune, truth and faith in the new China (Far­rar, Strauss and Giroux, ebook 12 euro), scruta all’interno della società cinese cer­cando di capire quale nuova iden­tità si stia svi­lup­pando nel Regno di Mezzo. Osnos sem­bra alla ricerca dell’origine del muta­mento, quasi antro­po­lo­gico, dei cinesi. E sem­bra natu­rale che la pro­ie­zione di que­sti cam­bia­menti — che secondo il gior­na­li­sta hanno por­tato l’uomo e la donna cinese a svi­lup­pare una straor­di­na­ria forma di indi­vi­dua­li­smo — si river­be­rino sulla scena inter­na­zio­nale, diven­tando pro­po­sta poli­tica e spunto diplo­ma­tico. Di altro tenore, infatti, più geo­po­li­tico e stra­te­gico, è Cool war – Stati uniti e Cina. Il futuro della com­pe­ti­zione glo­bale di Noah Feld­man (Il Sag­gia­tore, euro 18). Quello di Feld­man, pro­fes­sore di diritto inter­na­zio­nale alla Har­ward Law School, è un volume nel quale invece l’autore svi­luppa una rifles­sione sul pos­si­bile con­flitto tra Cina e Usa, alla luce della loro riva­lità, con­trad­di­stinta da una coo­pe­ra­zione di natura economica.

La rela­zione con l’«altro»

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Osnos ha grande dime­sti­chezza con la sto­ria cinese, per­ché ha stu­diato in Cina, ha incon­trato i migliori intel­let­tuali e arti­sti, o i per­so­naggi che più di altri hanno con­trad­di­stinto il «mira­colo cinese». Una delle novità prin­ci­pali che Osnos riscon­tra tra la Cina «pre-apertura» e quella suc­ces­siva, riguarda il lin­guag­gio. Si tratta di un fat­tore non da poco, anche per quanto riguarda la diplo­ma­zia e la pre­sunta aggres­si­vità cinese a livello inter­na­zio­nale. Come spe­ci­fica il gior­na­li­sta del New Yor­ker, men­tre un tempo – durante l’era maoi­sta — i cinesi si espri­me­vano per lo più attra­verso il «noi», «la nostra unità di lavoro», la «nostra fami­glia», ormai siamo di fronte alla «generazione-io», quella che i cinesi chia­manowo yi dai (me gene­ra­tion, in inglese).

Un indi­vi­dua­li­smo, senza gene­ra­liz­zare, che ha col­pito molti degli abi­tanti della Cina, tanto da pro­se­guire poi attra­verso altri e nuovi cam­bia­menti lin­gui­stici e di senso. Ad esem­pio, una delle espres­sioni più ricor­renti nei dia­lo­ghi tra i cinesi – par­liamo pre­va­len­te­mente di middle class – è che­fang jibei, che signi­fica «munito di casa e auto». Ovvero le carat­te­ri­sti­che prin­ci­pali per tro­vare moglie o marito, oggi in Cina. Come ricorda Osnos, tra i cinesi divenne cele­bre la frase di una ragazza in un noto pro­gramma di intrat­te­ni­mento della tv nazio­nale: «Pre­fe­ri­sco pian­gere den­tro una Bmw, che ridere in bicicletta».

Casa e auto sono diven­tati, nel tempo, due beni neces­sari per farsi largo in Cina, due ter­mini e «pro­prietà» che hanno con­trad­di­stinto il cam­bia­mento nella vita quo­ti­diana dei cinesi. Sin­tomo di stra­vol­gi­menti epo­cali, che hanno por­tato i cinesi a pri­vi­le­giare nuovi con­cetti, a sca­pito di altri. La que­stione inte­res­sante che pone que­sta muta­zione è la seguente: a livello inter­na­zio­nale, come per­ce­zione col­let­tiva, il sog­getto rimane invece ancora il «noi», tanto più dall’arrivo al potere di Xi Jin­ping che ha svi­lup­pato il con­cetto di «sogno cinese», che dovrebbe acco­mu­nare tutti gli abi­tanti del paese, in un «rina­sci­mento nazio­nale».
La cre­scita espo­nen­ziale dell’economia cinese negli ultimi vent’anni — sep­pure ora appaia in fase di ral­len­ta­mento, con un Pil al 7,4 che rap­pre­senta il punto più basso dell’economia dal 1990 — è stata capace di rin­sal­dare il nazio­na­li­smo, unico ele­mento che al momento sem­bra unire la popo­la­zione cinese. Un nazio­na­li­smo che si tinge di spi­rito di rivalsa e che per que­sto pre­oc­cupa Noah Feld­man la cui ana­lisi, se è vero che tiene conto degli ambiti di con­tra­sto, poten­ziale e non solo, tra Usa e Cina, sem­bra vedere soprat­tutto in Pechino, il sog­getto che può improv­vi­sa­mente imbizzarrirsi.

I libe­ri­sti del partito

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Per­ché? Il ragio­na­mento che sot­tende Feld­man è tipico di una visione occi­den­tale delle que­stioni orien­tali: la Cina non avrebbe ancora com­piuto quel per­corso ovvio che vede andare di pari passo la cre­scita eco­no­mica con la neces­sità di tra­sfor­mare l’ordinamento poli­tico in una demo­cra­zia. Si tratta di un’idea bal­zana, agli occhi dei cinesi, eppure secondo molti autori, sarebbe pro­prio l’autoritarismo del Pcc a costi­tuire un rischio inter­na­zio­nale. Si sa, nel nostro imma­gi­na­rio i dit­ta­tori sono dei poten­ziali san­gui­nari. Ma in Cina c’è una forma auto­ri­ta­ria di gestione del potere, senza un dit­ta­tore. E non solo: in Cina sono ormai con­vinti che non sia asso­lu­ta­mente auto­ma­tico l’assioma pro­po­sto dagli occi­den­tali, anzi; è con­vin­zione orami dif­fusa che lo strambo modello politico-economico del Pcc fun­zioni pro­prio per­ché poli­ti­ca­mente non è demo­cra­tico. E come tale resterà in futuro.

A que­sto pro­po­sito, Osnos sce­glie come sto­ria prin­ci­pale del suo libro quella di un per­so­nag­gio dav­vero par­ti­co­lare. Justin Yifu Lin, meglio cono­sciuto in Cina come Zhen­gyi Lin. Il gio­vane Justin, nasce a Tai­wan e dopo la rivo­lu­zione maoi­sta, è uno degli uffi­ciali più impor­tanti dell’esercito dell’isola. Un giorno decide di diser­tare: a nuoto rie­sce ad arri­vare in Cina, impresa tutt’altro che sem­plice. Lì viene inter­ro­gato per mesi, fino a con­vin­cere i diri­genti del Par­tito comu­ni­sta di non essere una spia. Comin­cia la sua nuova vita cinese, che lo por­terà a pri­meg­giare nello stu­dio e a otte­nere una borsa di stu­dio presso l’università ame­ri­cana di Chi­cago. Nel 1986 Justin va a scuola dai Chi­cago boys, torna in Cina e spiega ai fun­zio­nari il libe­ri­smo. Non avrà mai inca­ri­chi di governo o di par­tito uffi­ciali, ma diven­terà una sorta di «capo» dei piani eco­no­mici cinesi nell’epoca «dell’apertura». Fino a diven­tare vice pre­si­dente della Banca Mon­diale. Zhen­gyi Lin, che Osnos incon­tra diverse volte, è uno degli eco­no­mi­sti più impor­tanti al mondo ed è con­vinto che la chiave di suc­cesso della Cina sia pro­prio la sua natura auto­ri­ta­ria, che risulta come un dato di fatto, di cui tutti dovrebbe pren­dere atto: la Cina non cam­bierà mai il pro­prio assetto poli­tico, spe­ci­fica Zhengyi.

Amici e nemici

Noah Feld­man – nel suo Cool War – allarga il qua­dro. La natura auto­ri­ta­ria di Pechino porta il Paese ad allearsi ten­den­zial­mente con altri Stati auto­ri­tari, creando il rischio con­creto che la Cina possa diven­tare un ele­mento di insta­bi­lità e possa arri­vare ad un con­flitto con gli Stati uniti. In que­sto ragio­na­mento sem­brano anni­darsi una dimen­ti­canza e un’inesattezza. La dimen­ti­canza è che Feld­man non ricorda la ten­denza dei demo­cra­tici Stati uniti ad allearsi con chiun­que, anche i peg­giori dit­ta­tori, quando si tratta di per­se­guire i pro­pri inte­ressi. L’inesattezza sem­bra essere quella di pen­sare che la Cina si muova all’estero alla ricerca di pro­pri simili, a livello ideo­lo­gico, quando invece la bus­sola dei diri­genti cinesi è laica come quella di molti altri paesi. I cinesi per­se­guono i pro­pri inte­ressi, come dimo­strano alleanze, eco­no­mi­che, anche con paesi con­si­de­rati da tutti demo­cra­tici. Feld­man in que­sto ha la posi­zione scon­tata dell’Occidente: «La lea­der­ship del Par­tito – scrive – vorrà man­te­nere intatta la pro­pria posi­zione e con­so­li­dare la pro­pria legit­ti­mità senza sot­to­porsi a con­sul­ta­zioni demo­cra­ti­che. Qua­lun­que ini­zia­tiva poli­tica dovrà pre­stare molta atten­zione alle moti­va­zioni di que­sti lea­der. Gli Stati uniti e i loro alleati occi­den­tali dovranno tenere pre­senti gli inte­ressi del Par­tito, senza scen­dere a com­pro­messi sui diritti umani».

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Più inte­res­santi le con­si­de­ra­zione di Feld­man nell’ultima parte del libro, quando ana­lizza la pos­si­bi­lità che lo scon­tro avvenga «per pro­cura». Si tratta di una con­si­de­ra­zione attuale, per­ché è qual­cosa che sta già avve­nendo, basti pen­sare alla Siria. Ma il mondo mul­ti­po­lare ha una sua gerar­chia e chi tiene i fili di alcuni pro­cessi ormai orga­nizza e gesti­sce «solo» guerre per pro­cura (Siria, Libia, i più recenti Yemen e in Europa l’Ucraina). Sarà neces­sa­rio vedere se que­ste «guerre per pro­cura» fini­ranno per scop­piare anche nell’area dove asso­mi­glie­reb­bero più a un con­fronto diretto, ovvero nel Paci­fico.
Secondo Feld­man l’ipotesi più cre­di­bile è quella di una poten­ziale guerra coreana, ma il pro­fes­sore di Har­vard si dimo­stra un otti­mi­sta, quando ricorda che in ogni caso Usa e Cina hanno più inte­ressi comuni, eco­no­mi­ca­mente, che diver­genze. E que­sto fat­tore dovrebbe garan­tire una pace, per quanto colma di ten­sione. Osnos non si pone così diret­ta­mente il pro­blema, ma indaga le sen­sa­zioni cinesi nei con­fronti dell’Occidente, recu­pe­rando una frase di Lu Xun (uno degli scrit­tori e intel­let­tuali più noti nella sto­ria cinese): «I cinesi non hanno mai con­si­de­rato gli stra­nieri come degli esseri umani. Li abbiamo sem­pre con­si­de­rati o come una spe­cie di divi­nità da ado­rare, o come degli ani­mali selvaggi».

Tra invi­dia e risentimento

Il mix dei sen­ti­menti cinesi nei con­fronti degli occi­den­tali, secondo lo scrit­tore ame­ri­cano, si con­suma tra invi­dia e risen­ti­mento. Invi­dia per­ché l’Occidente viene visto come una sorta di para­diso cul­tu­rale, arti­stico e intel­let­tuale; risen­ti­mento per quanto fatto dalle potenze occi­den­tali alla Cina durante «il secolo dell’umiliazione». Non a caso quando la dina­stia Qing nel 1877 mandò un gio­vane pro­fes­sore, Yan Fu, in Inghil­terra a stu­diare la potenza navale bri­tan­nica, il docente tornò spie­gando agli impe­ra­tori che la forza marit­tima inglese non era giu­sti­fi­cata dalla ric­chezza della Corona bri­tan­nica, bensì «dalle idee della società inglese». Per giu­sti­fi­care que­sta sen­sa­zione, aveva por­tato con sé i libri di Her­bert Spen­cer, Adam Smith, John Stuart Mill e Char­les Dar­win. Un po’ come oggi i cinesi che hanno stu­diato all’estero tor­nano in Cin con know how e cono­scenze occi­den­tali. Fino a quando i cinesi sen­ti­ranno ancora di dover impa­rare, per la pace nel mondo non dovreb­bero esserci pro­blemi, sem­bra con­clu­dere Osnos.



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