L’ipotesi per il pubblico impiego: le certificazioni affidate all’Inps

by redazione | 3 Gennaio 2015 18:18

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ROMA Le ultime rilevazioni periodiche del ministero della Funzione pubblica risalgono allo scorso agosto e registrano un calo del 9% delle assenze per malattia nella Pubblica amministrazione rispetto a un anno prima, ancora più accentuato nei Comuni, dove il dato scende del 16,6%. Sarebbe ingeneroso non ammettere che le norme Brunetta sulla malattia che nel 2008 hanno previsto la decurtazione del trattamento accessorio della retribuzione nei primi dieci giorni di malattia, non abbiano segnato una svolta nell’assenteismo della Pa.
Tuttavia i dati citati sono molto parziali, affidati alla comunicazione volontaria delle amministrazioni, in media solo 5 mila. Per questo il ministero di Marianna Madia ha da tempo sotto gli occhi altri numeri, come quelli che attestano che tra il 2011 e il 2013 il numero complessivo dei certificati di malattia nel pubblico impiego è aumentato del 27%, mentre è rimasto quasi invariato nel privato.
È bastato il caso dei vigili di Roma, che hanno disertato il lavoro mettendosi in malattia, per far esplodere una questione che per il governo potrebbe avere un esito già scritto: l’affidamento esclusivo all’Inps della certificazione delle malattie anche nel Pubblico impiego.
Lo ha anticipato in un’audizione dell’aprile scorso, presso la commissione Affari sociali della Camera, il sottosegretario Angelo Rughetti: «Se ci deve essere un intervento normativo, esso dovrebbe attribuire la titolarità della funzione in modo esclusivo (all’Inps, ndr ) e prevedere un’organizzazione stabile in questa materia».
Il problema, come accade spesso sono le risorse: oggi l’Inps controlla i certificati solo nel privato per un costo di 25 milioni, mentre le Asl controllano quelli del pubblico, che sono meno della metà, per un costo di 70 milioni. In maniera consuetudinaria, è stata accettato il principio che le visite mediche di accertamento per i dipendenti pubblici siano organizzate ed effettuate dal Servizio sanitario nazionale, senza alcuna tariffazione a carico dei datori di lavoro, se non in maniera molto parziale ed episodica, con la conseguenza che negli ultimi anni sono stati utilizzati 70 milioni di euro provenienti dal Fondo sanitario nazionale. Ma nel marzo scorso la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha ribadito in un documento ufficiale che tali accertamenti non rientrano nei Livelli essenziali di assistenza e dunque non è proprio compito provvedervi e sostenerne le spese. Anzi la Conferenza ritiene necessario integrare nuovamente il Fondo con le risorse che sono state sottratte per queste finalità.
A propria volta l’Inps oggi ricorre a personale con contratti libero-professionali, pagato sostanzialmente a prestazione e in regime di incompatibilità più o meno totale con altri incarichi. I tagli di spesa conseguenti alla spending review hanno reso drammatica la situazione di molti medici che hanno svolto per anni in modo prevalente o addirittura esclusivo tale attività professionale.
Il nodo dunque sono le risorse: il costo del servizio reso dall’Inps nel settore del pubblico impiego dovrebbe trovare risposta nelle cifre già ora stanziate dallo Stato per il medesimo scopo. La commissione Affari sociali propone che si stanzi «un budget annuo complessivo tale da coprire una quota predefinita di visite di controllo per la Pa, lasciando a ogni amministrazione la possibilità di integrare tale quota ove risultasse necessario procedere ad un numero maggiore di controlli». Tale ipotesi consentirebbe di evitare che ragioni di risparmio immediato, con conseguente riduzione del numero dei controlli, «lasci, trasparire l’idea di un rallentamento della lotta all’assenteismo».
Antonella Baccaro
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