Nessuno tocchi l’odioso Dieudonné

Nessuno tocchi l’odioso Dieudonné

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LA QUESTIONE è seria. Però il comico Dieudonné M’bala M’bala, messo agli arresti per un giorno e rinviato a giudizio, è prima di tutto quello che lui cercava.
DOPO aver provato altre strade, costui scelse di cercarsi il suo pubblico fra quei francesi risentiti, inclini all’insofferenza verso gli ebrei, e persuasi di protestare ragionevolmente contro il fatto che “degli ebrei non si può scherzare!”, e insofferenti verso i ricchi e potenti in genere, com’è comprensibile, se non fosse che vanno a finire nelle braccia vaste del populismo qualunquista e razzista.
Non ne so abbastanza, ma direi che il successo di Dieudonné abbia contrappuntato quello del Fronte Nazionale della signora Le Pen. E direi che il guitto ora abbia fatto un errore madornale per uno del suo fiuto. Marine Le Pen, che forse era stata tagliata fuori dalla domenica parigina, e più probabilmente si era tagliata fuori, si è alla fine rassegnata a essere irrilevante, andare a fare una comparsa di bandiera in provincia con una manciata di fedeli, e aspettare che passasse la piena di Parigi. Dieudonné non ha saputo resistere. È andato alla manifestazione, in cui non poteva essere che uno di milioni, cosa superiore alle sue forze, così al ritorno ha vergato quattro righe suppostamente spiritose su Facebook, giocando la sua carta: «Je suis Charlie Coulibaly». Gli è venuto naturale scegliere, dei tre assassini, quello degli ebrei… Non era una bomba, era un mortaretto, verbale naturalmente: la stessa impresa che si poteva temere, ma non verbale, da qualche allievo jihadista frustrato da quella alluvione popolare. «Volevo far ridere della morte», ha scritto poi, da bravo scolaro pentito, in una lettera aperta al primo ministro. Dieudonné, come succede non di rado ai missionari delle risate altrui, si è semplicemente reso ridicolo. Però il governo e la magistratura l’hanno preso sul serio, e accusato di apologia del terrorismo. Mossa esemplare, come una serie di condanne direttissime per lo stesso reato, ma incauta, temo, e tale da andare incontro alle speranze dell’attore, che di denunce analoghe fa collezione. Quando decapitano Foley, lui si affretta a scherzare sulla testa deposta sul resto del cadavere: ci sono gli attentatori e i tagliatori di teste, lui è il mimo del giorno dopo. L’errore politico che ha fatto per smania di presenza, credo, sta in questo: che i tanti, troppi francesi che si sono avvicinati alla Le Pen, e non l’avrebbero fatto altrettanto con suo padre, non di rado venendo dalla sinistra e dalla classe lavoratrice — conosciamo bene il fenomeno — sono spinti da uno spodestamento sociale, materiale e simbolico, e dall’incapacità della sinistra ufficiale. Vanno verso un’opposizione che promette di mettere al loro posto i nuovi arrivati e di restaurare le frontiere. Ma questo passaggio a destra, per ingente che sia, non è ancora definitivo, e un episodio come l’eccidio di Charlie, dei poliziotti, dei cittadini ebrei che fanno la spesa, di francesi musulmani che muoiono con la divisa della Repubblica o si mettono a rischio per soccorrere il prossimo all’Hyper cacher, li richiama alla trincea che avevano abbandonato.
Quel “Je suis Charlie Coulibaly” serve a Dieudonné a mettersi in mostra, non a conquistare il pubblico, se non la frangia degli incarogniti tifosi jihadisti. Però ora la domanda diventa: difendiamo la libertà d’espressione di Charlie, e la vietiamo e perseguiamo Dieudonné? Una differenza c’è, e non solo per la giurisprudenza francese, che è più restrittiva della nostra (non però per la blasfemia, che da noi è reato). Le vignette sull’Islam e il suo profeta offendono il sentimento dei musulmani, o della gran parte di loro; “danno scandalo”, ma sollevano solo una questione morale. Da un lato è opportuno che gli scandali avvengano, dall’altro è gravissimo fra i peccati, quando offenda i fanciulli (i musulmani sono i fanciulli religiosi dell’umanità?). Dieudonné fa sfoggio di sbeffeggiamenti antisemiti, gesticolazioni paranaziste, negazioni della Shoah, scoperti incitamenti all’odio: altrettanti reati. La differenza fra una questione di gusto o di morale e un reato sembra abbastanza netta: in realtà non è così, e il limite è ogni volta sfuggente ed esposto alle convenienze. Il vittimismo di Dieudonné — uno che è sempre lì per buttarsi in politica — ha abusato di decisioni impegnative come il divieto preventivo, un anno fa e adesso di nuovo, del suo spettacolo, di cui del resto sono notissimi i toni disgustosi. Nel caso di domenica, temo che l’autorità giudiziaria, e l’aura governativa in cui si è mossa, abbiano reso più difficile a tutti dire che la battuta di Dieudonné è solo una miserabile esibizione, e rivelatrice. Qual è allora il criterio attraverso cui fissare il limite della satira? Non so, naturalmente, ma ho un suggerimento. Provare ogni volta a immaginare che qualche esaltato ammazzi Dieudonné — o chi altri sia di turno. Andrei a manifestare per lui? Canterei la Marsigliese per lui? Domande imbarazzanti. Nel frattempo, una sola parola d’ordine: nessuno tocchi l’odioso Dieudonné.


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