“Non è stato un suicidio” l’Argentina sotto shock in piazza per il procuratore che accusò la Kirchner

“Non è stato un suicidio” l’Argentina sotto shock in piazza per il procuratore che accusò la Kirchner

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MADRID . Un giallo sempre più intricato, com’è ormai nella tradizione — lunga e inquietante — degli intrecci politico-criminali irrisolti della trentennale storia democratica argentina. Sulle mani del procuratore Alberto Nisman, trovato morto lunedì nel bagno del suo lussuoso appartamento di Buenos Aires, non sono state trovate tracce di polvere da sparo. È il responso della perizia tecnica annunciato dal magistrato che indaga sulla vicenda, Viviana Fein. La quale, però, si è affrettata a precisare che questo risultato negativo potrebbe essere dovuto a un «problema tecnico», considerato il piccolo calibro della pistola ritrovata accanto al cadavere, «che non permette una completa rilevazione della polvere: molte volte lo scanning elettronico non dà risultato positivo». Insomma, per il magistrato, l’ipotesi del suicidio, seppure non ancora compiutamente provata, resta in piedi. Una tesi accolta con enorme scetticismo da un Paese in stato di shock, che già lunedì sera, tra marce e “cacerolazos”, si è riversato nelle strade per chiedere giustizia. Da Buenos Aires (sull’emblematica Plaza de Mayo e davanti alla Quinta de Olivos, residenza del capo dello Stato) a Mendoza, da Córdoba a Santa Fe, a decine di migliaia hanno sfilato innalzando cartelli con la scritta «Yo soy Nisman» o anche, in versione francese, «Je suis Nisman», richiamando lo slogan che ha percorso il mondo dopo il massacro parigino nella redazione del Charlie Hebdo.
Tra i tanti, c’è un nuovo elemento che si aggiunge alle perplessità di chi non crede che il procuratore si sia tolto la vita: secondo quanto ha rivelato uno dei dirigenti della comunità ebraica argentina, Jorge Kirszenbaum, nell’appartamento è stata trovata una nota con cui Nisman dava indicazioni alla domestica per la spesa che avrebbe dovuto fare nella giornata di lunedì. Nulla, anche a sentire i giornalisti e i colleghi che sono stati in contatto con lui nelle ultime ore prima della morte, fa pensare che il magistrato fosse depresso. È vero però che Nisman aveva compiuto una scelta estremamente rischiosa ed era cosciente delle conseguenze che avrebbe potuto comportare, anche per lo sviluppo della propria carriera: la decisione di sfidare in modo frontale la presidente Cristina Fernández de Kirchner, accusata di favoreggiamento nei confronti del regime iraniano (in cambio di petrolio) sospettato di essere il responsabile diretto della strage del 1994 nella sede dell’associazione ebraica Amia, in cui morirono 85 persone, aveva cominciato a provocargli problemi anche all’interno della magistratura.
Nisman — professore universitario di diritto penale e processuale, specializzato in narcotraffico, terrorismo internazionale, riciclaggio, frode e traffico d’armi — era arrivato alla fama, può sembrare curioso, proprio per una decisione del marito di Cristina, Néstor Kirchner, che nel 2004, durante il suo mandato presidenziale, lo incaricò del gravoso compito di resuscitare l’indagine sul più grave attentato terroristico della storia argentina, impantanato da un decennio. L’attuale “presidenta” all’epoca era la “primera dama”, ma anche una politica attiva che, come lei stessa ha ricordato ieri in un lungo articolo su questa vicenda, aveva fatto parte della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Amia. Ora Cristina, in un evidente sforzo di autodifesa, denuncia oscuri tentativi di «deviare, mentire, occultare, confondere». Non si riferisce in modo diretto al procuratore scomparso, ma lascia in qualche modo intendere che potrebbe essere stato vittima di una operazione di depistaggio.
E del resto è lo stesso svolgersi tortuoso dell’inchiesta su quel massacro di vent’anni fa a suscitare enormi perplessità. Perché l’inchiesta di Nisman, mai arrivata a conclusioni definitive, si è mossa tra due filoni contrapposti. Prima che prendesse corpo la pista iraniana, per la quale il procuratore chiese nel 2006 l’incriminazione di diversi alti dirigenti del regime degli ayatollah, compreso l’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, si era affacciata anche una dubbia “pista siriana”. Che alla fine è stata scartata, però non senza strascichi: per un tentativo di insabbiamento delle indagini, lo stesso Nisman ha infatti chiesto il rinvio a giudizio dell’ex presidente Carlos Menem e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori.


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