«Pronti a non votarlo» La minoranza dem fa muro sull’Italicum

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ROMA Aula quasi vuota al Senato — presidiata solo da un gruppetto di grillini, dalla minoranza del Pd, dalla presidente Anna Finocchiaro, dal leghista Roberto Calderoli e da un’attentissima Maria Elena Boschi, inamovibile dal banco del governo insieme al sottosegretario Luciano Pizzetti — in attesa che da martedì inizi la raffica di votazioni sui 40 mila e rotti emendamenti della legge elettorale. L’obiettivo del governo è quello di chiudere ben prima del 29 gennaio, giorno in cui i senatori si trasferiranno alla Camera per eleggere il capo dello Stato e il capogruppo del Pd, Luigi Zanda, non sembra poi così spaventato dal numero spropositato di emendamenti prodotto da Calderoli: «Ce la faremo, magari per la fine della prossima settimana lavorando anche di sabato e di domenica».
È saltata però la riunione di oggi in cui il segretario Matteo Renzi avrebbe dovuto domare la minoranza del Pd che al Senato sta preparando un documento politico da giocare se le richieste per limitare il numero dei deputati nominati non dovessero essere accolte. Avverte il bersaniano Miguel Gotor: «Ce la mettiamo tutta ma se il segretario non ci ascolta vuol dire che alla fine non voteremo l’Italicum. Non dico che voteremo contro. Però…».
L’ostacolo «quantitativo» rappresentato da Calderoli, dunque, sembra aggirabile con la tecnica del «canguro» (gli emendamenti seriali cadrebbero uno dopo l’altro) o magari perché l’esponente del Carroccio potrebbe fare forse parziale marcia indietro. Più delicato per il governo il problema «qualitativo» degli emendamenti presentati dalla minoranza del Pd che ha già schierato in aula una batteria di interventi di avvertimento ipercritici sull’Italicum; Massimo Mucchetti, Vannino Chiti, Miguel Gotor, Maurizio Migliavacca, Federico Fornaro e altri ancora hanno puntato sull’effetto di sistema che avranno la legge elettorale e la riforma del bicameralismo. Mucchetti ha spiegato che siamo davanti a «una politica del carciofo, a una mutazione genetica della forma di governo». Migliavacca ha insistito sul ripristino di un legame forte che ormai si è rotto tra eletti ed elettori: «E questo non si ottiene certo con l’aumento dei deputati nominati e non scelti dai cittadini».
È dunque in preparazione un documento politico firmato da una trentina di senatori dem da sottoporre a Renzi nella riunione del chiarimento slittata a lunedì. Ma l’aria di rivolta non è poi così scontata. Pippo Civati va teorizzando che anche i bersaniani ora si stanno placando sulle riforme perché c’è una non tanto remota possibilità che pure l’ex segretario entri in gioco per il Quirinale.
Segnali non amichevoli nei confronti del governo arrivano poi anche dalla minoranza di FI: i fittiani (40 parlamentari) minacciano di non seguire le indicazioni di voto di Berlusconi: alla Camera — dove continua la lenta marcia della riforma costituzionale che deve affrontare ancora più di mille votazioni — Maurizio Bianconi ha addirittura chiesto «una commissione di inchiesta sul patto del Nazareno». Al Senato gli azzurri Bonfrisco e Minzolini si sono accodati a Sel, Lega e M5S per chiedere la sospensione dei voti sulle riforme in attesta che si elegga il capo dello Stato. Stessa richiesta alla Camera. A tutti, però, le presidenti Laura Boldrini e Valeria Fedeli (che da ieri sostituisce Grasso) hanno detto no.
Dino Martirano


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