La sinistra ammaliata dal mercato

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Mat­teo Renzi è un B&B. Sta esat­ta­mente nella metà di una ipo­te­tica linea con­ti­nua che abbia, ai suoi due capi estremi, Ber­lu­sconi e Blair. Peral­tro, riguardo alle reci­pro­cità tra que­sti ultimi due non si nutri­vano troppi dubbi. Entrambi hanno con­corso ad un obiet­tivo, rag­giun­gen­dolo in pieno: svuo­tare le cul­ture poli­ti­che d’origine e sosti­tuirvi una mucil­la­gine di sug­ge­stioni, a tratti popu­li­sta. Del muta­mento glo­bale in atto nelle società a svi­luppo avan­zato, peral­tro, non sono causa ma effetto, non male bensì sin­tomo. Che si pro­lun­gano, l’uno e l’altro, al di là di ogni ragio­ne­vole sop­por­ta­zione. Dopo di che, lasciando da parte le vicende di casa nostra, è inte­res­sante spo­stare il fuoco dell’attenzione su qual­cosa che si è già con­su­mato e che tut­ta­via rimane come un trac­ciato ine­lu­di­bile. Le for­tune del par­tito di Tony Blair ritor­nano in un volume di grande inte­resse qual è quello fir­mato da Flo­rence Fau­cher e Patrick Le Galès, L’esperienza del New Labour. Un’analisi cri­tica della poli­tica e delle poli­ti­che (Franco Angeli, pp. 192, euro 25). In fondo è già tempo di farne la sto­ria, rico­struen­done il pro­filo socio­lo­gico e l’imprinting ideo­lo­gico. Per­ché il lascito e l’eco della sua impo­sta­zione ritorna nelle vicende odierne.

Gli spunti sono quindi mol­te­plici. Dalla let­tura del per­corso neo­la­bu­ri­sta, infatti, si col­gono gli aspetti di lungo corso dell’egemonia cul­tu­rale della società di mer­cato e degli effetti dei pro­cessi di governo post-democratici. Tre sono i trac­ciati a par­tire dai quali gli autori arti­co­lano le loro rifles­sioni. Il primo è il con­vin­ci­mento, dif­fuso nella lea­der­ship di Blair, che si sia per­ve­nuti ad un «nuovo tempo», quello della glo­ba­liz­za­zione, dove gli indi­rizzi di fondo dei grandi pro­cessi macroe­co­no­mici, non­ché i loro riflessi sociali, siano non solo non gover­na­bili poli­ti­ca­mente ma che incor­po­rino in sé un’ineluttabilità per molti aspetti posi­tiva. Da ciò, quindi, l’idea che qual­siasi impianto rifor­mi­sta possa misu­rarsi solo con gli effetti di tali trend, mai con le cause, e che debba agire sui desti­na­tari pas­sivi del muta­mento, la società stessa, e non sugli agenti attivi, i cen­tri di potere.

Ideo­lo­gia utilitarista

Il secondo ele­mento rimanda all’avversione verso i corpi inter­medi, ossia i sog­getti della rap­pre­sen­tanza e della media­zione, a favore invece di un rap­porto diretto tra deci­sore e cit­ta­dino, quest’ultimo inteso come un con­su­ma­tore. A ciò si ricon­nette una sostan­ziale indif­fe­renza, se non la deli­be­rata dif­fi­denza, verso qual­siasi idea di società che non cor­ri­sponda alle pro­prie imma­gini ideo­lo­gi­che. Di qui al passo che con­si­dera la società mede­sima come un vin­colo, e non una risorsa, nel nome del micro­co­mu­ni­ta­ri­smo e dell’individualismo più puri, la distanza è breve e si sposa con la con­ce­zione uti­li­ta­ri­sta, che vede nelle col­let­ti­vità un osta­colo al rag­giun­gi­mento degli obiet­tivi del sin­golo. Tut­ta­via, da ciò non è deri­vata una con­tra­zione del ruolo dello Stato ma, piut­to­sto, una ride­fi­ni­zione, in chiave for­te­mente restrit­tiva, della sfera della par­te­ci­pa­zione poli­tica. Quest’ultima, infatti, sem­pre più spesso è stata occu­pata dai pro­fes­sio­ni­sti della comunicazione.

L’ossessione per l’immagine di sé ha quindi sca­val­cato e offu­scato la capa­cità stessa di pro­durre un imma­gi­na­rio pub­blico. Il terzo fat­tore è det­tato dal cen­tri­smo come atteg­gia­mento men­tale, prima ancora che per la sua natura di col­lo­ca­zione nel qua­dro poli­tico. Nel momento stesso in cui si pone­vano le pre­messe della sua crisi in tutto il con­ti­nente euro­peo, un’indistinta idea di «classe media» veniva iden­ti­fi­cata come l’approdo obbli­gato per ciò che restava del labu­ri­smo. Forse è stato que­sto l’errore più cla­mo­roso, deri­vante dall’incapacità di cogliere l’effetto delle poli­tica libe­ri­ste, desti­nate sem­mai a pola­riz­zare le dif­fe­renze sociali ed eco­no­mi­che. Ma di que­ste ultime, gli uomini di Blair ave­vano spo­sato più aspetti, con­fon­dendo il discorso sulla «meri­to­cra­zia» con le pra­ti­che acqui­si­tive, e pre­da­to­rie, dei mer­cati finan­ziari, non­ché rite­nendo che la cit­ta­di­nanza fosse sem­pre più spesso una varia­bile dipen­dente dalla capa­cità di con­sumo, eletta a vero e pro­prio indice dell’integrazione e della coe­sione sociale.

Il popolo sovrano, in piena sin­to­nia con l’approccio popu­li­sta, si è quindi tra­sfor­mato in popolo-elettore, desti­nato a ple­bi­sci­tare le intui­zioni delle élite e del lea­der. All’interno del par­tito di Blair, come sta avve­nendo oggi nel Pd di Mat­teo Renzi, la moder­niz­za­zione si è per­tanto orien­tata essen­zial­mente verso tre esiti: la guerra inter­ge­ne­ra­zio­nale dei «gio­vani» con­tro le vec­chie oli­gar­chie, otte­nendo un effetto di alter­nanza dei primi, costi­tui­tisi come ceto, alle seconde; una velo­ciz­za­zione della comu­ni­ca­zione poli­tica, qual­cosa al limite della fre­ne­sia, che ha assor­bito gli stessi con­te­nuti delle peral­tro fra­gili pro­po­ste di riforma, sosti­tuen­dosi infine ad essi; la ricerca, ai limiti dell’esasperazione, della disin­ter­me­dia­zione, ossia della rescis­sione dei rap­porti con l’ampio arci­pe­lago di orga­ni­smi del col­la­te­ra­li­smo, a par­tire dai sin­da­cati, iden­ti­fi­cando nell’esecutivo l’autentico ed unico sog­getto poli­tico in grado di deci­dere, indi­pen­den­te­mente da qual­siasi con­cer­ta­zione, quest’ultima giu­di­cata solo come potere di ricatto o comun­que di impro­prio condizionamento.

Sul ver­sante degli equi­li­bri sociali ne è deri­vata un’inedita miscela tra enfa­tiz­za­zione del «mer­cato» come luogo delle libertà con­crete e cen­tra­liz­za­zione del comando poli­tico. Al discorso sull’equità e sulla giu­sti­zia redi­stri­bu­tiva si è così alter­nato, e poi sovrap­po­sto, quello sul bino­mio tra effi­ca­cia ed effi­cienza, in una visione tec­no­cra­tica che, a ben vedere, ha con­corso atti­va­mente nel met­tere in dif­fi­coltà lo stesso ceto diri­gente neo­la­bu­ri­sta, anco­rato sem­pre più spesso a para­me­tri di valu­ta­zione deri­vati dall’economia mar­gi­na­li­sta e neo­clas­sica, avulsi dalla con­cre­tezza dei pro­blemi e dalla spe­ci­fi­cità degli inte­ressi in gioco.

Sci­vo­lose semplificazioni

La nozione di con­flitto sociale si è però dis­solta, cele­brata come un resi­duo del tempo che fu, venendo quindi sosti­tuita dalla nego­zia­zione e dal con­tratto tra utenti e for­ni­tori. La stessa idea di «impresa» ha rical­cato que­sto modulo esclu­sivo di scam­bio, tra­la­sciando del tutto l’articolazione e la stra­ti­fi­ca­zione delle mol­te­plici forme della pro­du­zione, così come dell’identità di pro­dut­tori e impren­di­tori. Ciò che resta dell’esperienza del New Labour è la sci­vo­losa fasci­no­sità delle sem­pli­fi­ca­zioni, al limite della bana­liz­za­zione, della com­ples­sità dei per­corsi di muta­mento sociale.

Rispetto al difetto di pro­dotto finale la sua lea­der­ship, peral­tro ben pre­sto in crisi di legit­ti­ma­zione davanti all’elettorato, che non ha tar­dato a cogliere i limiti della sua sedu­zione, ha schiac­ciato il tasto del pro­cesso e dell’immaginario come vero nucleo dell’azione poli­tica. In altre parole, il movi­mento è tutto. Pec­cato che den­tro di esso vi siano solo dei fan­ta­smi, che pur con­ti­nuano a girare per l’Europa, tro­vando chi ne accre­dita un’inesistente tangibilità.



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