Il legame ormai rotto tra la democrazia e l’economia di mercato

Il legame ormai rotto tra la democrazia e l’economia di mercato

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Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk osserva che se c’è una persona a cui faranno il monumento nei prossimi cent’anni, quella sarà Lee Quan Yew, il leader di Singapore che ha inventato e realizzato il cosiddetto «capitalismo dal volto asiatico». Il virus di questo capitalismo autoritario si sta diffondendo, lento ma inesorabile, in tutto il mondo. Deng Xiaoping, prima di avviare le sue riforme, era stato a Singapore e lo aveva espressamente elogiato come modello di riferimento per la Cina. Questo cambiamento ha un significato storico e mondiale: fino ad oggi, il capitalismo sembra essere inestricabilmente associato alla democrazia — certo, a volte si è fatto ricorso alla dittatura diretta, ma dopo uno o due decenni, la democrazia si è imposta nuovamente (basta ricordare i casi della Corea del Sud e del Cile). Ora, comunque, si è rotto il legame tra democrazia e capitalismo.
Oggi si parla spesso del fallimento della civiltà occidentale come modello di riferimento globale, e del fallimento di quegli Stati post-coloniali che hanno cercato di emularlo. Questa diagnosi ha tuttavia un difetto: è finito, sì, il sogno di Fukuyama di una democrazia liberale globale, ma a livello economico il capitalismo ha trionfato in tutto il mondo — i Paesi del Terzo mondo che l’hanno sostenuto, oggi registrano tassi di crescita spettacolari.
Il capitalismo globale non ha problemi ad adattarsi a una pluralità di religioni, culture e tradizioni locali. Quindi, l’ironia crudele dell’anti-Eurocentrismo è che, in nome dell’anti-colonialismo, si critica l’Occidente proprio nel momento storico in cui il capitalismo globale non ha più bisogno dei valori culturali occidentali per funzionare perfettamente, ed è a suo agio con la «modernità alternativa».
Il capitalismo globale non implica necessariamente l’edonismo e l’individualismo permissivo. L’India, ad esempio, ha imboccato la strada della celere modernizzazione capitalista: ma non c’è stata rimozione universale delle tradizionali strutture sociali, come l’anteposizione dei legami comunitari al successo personale o il rispetto per gli anziani.
Questo non dimostra in alcun modo che simili realtà non siano totalmente «moderne». E si sbagliano di grosso i teorici post-coloniali «servili», che vedono nella persistenza delle tradizioni premoderne una forma di resistenza al capitalismo globale e al suo processo violento di modernizzazione che distrugge i legami tradizionali. La fedeltà ai quei valori è, paradossalmente, la vera prerogativa che permette a Paesi come Cina, Singapore e India di seguire la strada del processo capitalista in modo persino più radicale che nei Paesi liberali occidentali. Il riferimento ai valori tradizionali offre una giustificazione etica a chi condivide la logica spietata della competizione di mercato. È molto più semplice far riferimento a valori tradizionali per poter giustificare l’indifferenza agli altri. «Lo faccio per aiutare i miei genitori, per guadagnare i soldi necessari a miei figli e cugini per poter studiare…»: simili motivazioni sono molto più accettabili rispetto a «Lo faccio per me».
Non è un caso che la libertà sia un fondamento debole per il capitalismo nell’Occidente, perché è anche un fondamento vuoto. La libertà sopravvive anche qui, ma in una forma stranamente ingarbugliata. Dal momento che la libera scelta è stata elevata a valore supremo, il controllo sociale non può più sfiorarla. Spesso, comunque, l’accordo è solo retorico.
L’illibertà mascherata dal suo opposto si manifesta in una miriade di forme: quando siamo privati dell’assistenza sanitaria, ci dicono che ci offrono la libertà di scelta (del fornitore di assistenza sanitaria); quando non possiamo più contare su un impiego a lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo lavoro precario ogni due anni, ci dicono che ci offrono l’opportunità di reinventarci e scoprire nuove e inaspettate risorse creative, latenti nella nostra personalità; quando dobbiamo pagare l’istruzione dei nostri figli, ci dicono che «investiamo su di noi», come un capitalista che deve scegliere liberamente come investire le risorse possedute (o prese in prestito): in formazione, salute, viaggi… Bombardati costantemente da «libere scelte» imposte, costretti a prendere decisioni per cui generalmente non siamo neanche abbastanza qualificati (o informati), viviamo la nostra libertà per quello che è realmente: un peso che ci sottrae la vera scelta di cambiare.
Forse, questo paradosso ci consente anche di gettare una nuova luce sulla nostra ossessione per quello che sta succedendo in Ucraina, o l’ascesa dell’Isis in Iraq. Quello che ci affascina in Occidente non è il fatto che a Kiev il popolo abbia lottato per il miraggio di uno stile di vita europeo, ma che (quanto meno apparentemente) abbia combattuto semplicemente per prendere in mano le redini del proprio destino. Ha agito come un agente politico di un cambiamento radicale che in Occidente non possiamo più scegliere di fare.
(Traduzione di Ettore C. Iannelli)


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