Il nuovo stile di Mattarella la politica della voce bassa “Sarò un arbitro imparziale”

by redazione | 4 Febbraio 2015 10:24

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AL PRINCIPIO quasi non si sente, tanto bassa è la voce. Dopo anni di urla l’orecchio della politica non è più tarato ai sussurri. Bisogna fare ancora più silenzio per sentire Sergio Mattarella che giura da Presidente. Un silenzio senza brusio, senza fruscio di fogli né frugare di borse, senza ticchettio di tastiere. I deputati si fanno cenno l’un l’altro, in aula, con le mani: piano, fate più piano. Ci sono ancora molti banchi vuoti tra i seggi di Forza Italia e del Movimento Cinque stelle quando alle 9.59, con un minuto di anticipo, sotto un gran pavese di bandiere tricolore il neo Presidente rivolge il suo “rispettoso saluto” all’assemblea. Sarà un discorso di 30 minuti esatti. Semplice sottovoce limpido. Scritto, sui nove fogli che tiene in mano, quasi come fosse non un testo ma un indice. Una frase di quattro parole, a capo. Una riga, a capo. Riga bianca. Un sommario, un elenco. Un abbecedario di compiti, indicazioni, persone e temi: l’Italia, in sintesi. La sua Italia. «Non hai dimenticato nessuno», gli dirà all’orecchio la presidente della Camera Laura Boldrini mentre ancora corre l’applauso finale.
Questo deve fare, in effetti, un presidente della Repubblica nel discorso di insediamento: correre nel solco dei suoi predecessori e però dare un’impronta, un’indicazione personale, un carattere. Non bisogna dimenticare nulla – il Sud, la crisi, le forze armate, le donne, la salute, i giovani, i disabili – ma intanto aggiungere qualcosa di proprio.
In Mattarella è il tono mormorato, da principio, poi subito l’uso di vocaboli desueti – la democrazia che si deve “inverare”, farsi vera – poi i ricordi privati e il pantheon degli eroi – Falcone e Borsellino insieme al bambino di due anni, Stefano Tachè, morto nell’attacco alla Sinagoga di Roma dell’82. Nell’insieme l’uso ricorrente del noi, prima persona plurale. L’unità, la comunità, la condivisione. Noi, una parola «così fragile», dice, e tanto spesso – negli anni del fracasso – derisa. Poi la richiesta di aiuto: io sarò arbitro imparziale ma voi, i giocatori, dovete aiutarmi. Non giocare: con la vostra correttezza aiutare. Cambio di clima, cambio di passo. Anche Maroni e Zaia smettono di ridere, lassù in tribuna. Persino Ignazio La Russa un paio di volte almeno si alza in piedi. Anche i Cinque stelle, che nel frattempo hanno riempito i banchi, applaudono intermittenti per quanto non sempre all’unisono: non avendo il tempo di consultare la base on line devono, qui, decidere da soli come regolarsi. Prove di libero arbitrio, un’esperienza.
La fenomenologia degli applausi non ha paragoni con i precedenti discorsi presidenziali per numero e frequenza. Quarantadue applausi in 30 minuti, nove dei quali in piedi, sono una ginnastica indefessa, quasi un rito liberatorio. Si direbbero, al principio, applausi a prescindere. Il primo scatta sui diritti e servizi sociali fondamentali, il tema è l’emarginazione e la solitudine. A partire da qui non gli lasciano finire una frase. Comunità straniere, applauso, perde il terzo foglio e non sa come continuare, applauso di incoraggiamento, giovani e donne applauso, riforme imminenti, applauso Nazareno, dialettica parlamentare, applauso, legalità, più breve applauso, libertà di diritti nella sfera affettiva, applauso a braccia tese di Ivan Scalfarotto seduto proprio sotto di lui. Imparzialità dell’arbitro, applauso in piedi, come di chi avvezzo a vedersi rubare la palla senta, in campo, una specie di commozione nuova. Sulla Resistenza, sul Papa, sulla mafia e sui suoi eroi, sul bambino ebreo «bambino italiano» si alzano in piedi tutti. Sui marò solo la destra al principio – poi la sinistra, infine anche il governo. Minaccia globale del terrorismo internazionale, passaggio lungo e assai insistito, applauso preoccupato di chi teme di non sapere tutto ciò che altri in alto sanno. Sui volti, infine, la galleria di volti della “vita di tutti i giorni”: i bambini i giovani gli anziani gli imprenditori i giovani le donne, chi dona chi non si arrende chi lotta. La comunità. Noi. Applauso finale lungo, con Bossi che va a congratularsi di persona con Renzi ed Alfano nel frattempo già tornati amici, già visti in aula ridere e scherzare.
Orizzonte 2018, niente paura. Tutti scendono dai palchi molto di buonumo- re. Due cardinali in porpora, il vicario di Roma Agostino Vallini assai ridente. La famiglia Mattarella coi nipoti che postano le foto di casa su Facebook. Franco Marini, la volta scorsa presidente mancato, di grande buonumore: «Le cose sono cambiate molto in questi due anni eh?, si sono fatte più fluide. Sono molto felice, ringrazio Iddio per la mia sorte e per quella del Paese». La tradizione cattolico democratica è salva comunque.
Sono appena le dieci e mezza del mattino. Scatta adesso il rituale scenografico fitto di una selva di simboli: la Flaminia decappottabile i 36 corazzieri a cavallo i 21 colpi di cannone, l’Altare della Patria il Milite ignoto, frecce in cielo uniformi di ogni genere a terra lungo il cammino fino al Quirinale. Le 1200 stanze che attendono l’inquilino Mattarella e il suo nuovo più breve discorso, qui. Con Berlusconi venuto, da lui invitato, a battere sulle spalle di Nichi Vendola a trattare da uomo Rosi Bindi e a dire con mimica inequivoca che tutto quel che è successo a centrodestra è successo perché lui non c’era, era a Cesano Boscone costretto ai lavori sociali e si sa che «quando il gatto non c’è», eccetera. Salvini ha lasciato la sedia vuota, dice che non sapeva di essere stato invitato. Bersani non è stato invitato affatto, invece: «Ero incaricato prima, scaricato ora», ride ma si vede che gli dispiace. Pietro Grasso presidente del Senato può ricordare qui quando 35 anni fa a Palermo conobbe Mattarella, era il 1980 anno dell’omicidio di Piersanti, «eravamo ragazzi, chi avrebbe immaginato che ci saremmo ritrovati in questi ruoli in questo salone». Commozione breve, sicilianità, antiche intese. La sosta al buffet è di pochi minuti. Tra poche ore Renzi vede Alexis Tsipras, il vento greco è già qui. Si parla, lungo il brindisi, di imminenti sostituzioni al governo. Maurizio Lupi, ministro di Cielle non in simpatia col nuovo Presidente, non era seduto oggi ai banchi con Renzi: forse un indizio. Non ci sarà un rimpasto, solo qualche reintegro. Anna Finocchiaro forse: certo una donna, o più d’una. Poca cosa, comunque. Dettagli, d’ora in poi. Il più è fatto.
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