Kiev e Atene capitali della crisi
Non è un dispetto del calendario se alla fine oggi all’ordine del giorno della leadership europea precipitano due appuntamenti decisivi, il vertice dell’Eurogruppo sulla crisi greca e i colloqui di Misk sulla guerra in Ucraina.
Sono infatti due, Atene e Kiev, le capitali di quello che non esitiamo a definire come lo scenario delle macerie d’Europa.
In entrambe le «cartoline» si riflette il livello più basso di quella che ci ostiniamo — e ci ostineremo ancora — a chiamare Unione europea. Nell’una è evidente il nodo dei costi della crisi che mette in gioco l’idea stessa dell’Europa politica nonché di democrazia nell’intero Vecchio continente, nell’altra siamo ormai sul confine pericolosissimo di una guerra calda dopo l’89, tra Occidente e Russia. Che è sempre Europa e cristiana — ortodossa — come ha ricordato papa Francesco esprimendo sgomento per un conflitto armato tra «cristiani» nell’epoca della cosiddetta minaccia dell’Isis.
Ma centrale per queste capitali della crisi è la questione di come gli organismi centrali dell’Unione europea, fin qui consolidati dalle volontà dei governi occidentali, hanno risposto alla grande crisi economica finanziaria del 2009; di come hanno eluso la necessità di una risposta politica e sociale non più subalterna agli interessi delle banche internazionali, ai «mercati»; di come il paradigma dell’austerità e la cancellazione della spesa pubblica e dello storico welfare, siano diventati dogma.
Anche all’origine della esplosiva questione ucraina, c’è stato un rifiuto degli organismi comunitari a soccorrere con un prestito ponte la crisi economica divampata a Kiev: dopo la «rivoluzione» che ha cacciato un oligarca per intronizzarne un altro e una guerra civile ipernazionalista, il Paese si ritrova sul baratro di un default economico e bisognosa di decine di miliardi di euro.
Fu il governo Yanukovic, nell’autunno del 2013, di fronte al pericolo di fallimento, a chiedere aiuto all’Ue proponendo la possibilità di mantenere anche buoni rapporti con la Comunità degli stati indipendenti, vale a dire con la confinante Russia, vista anche la vocazione economica dell’est ucraino.
La risposta fu un irresponsabile e secco no. Tutto quello che è accaduto dopo — come l’immediato e interessato soccorso finanziario di Putin e poi la scelta di «non associarsi» all’Ue — è stato la conseguenza diretta di questo rifiuto europeo che ora tutti fanno finta di avere dimenticato. Come si dimentica il caloroso sostegno alla rivolta nazionalista ucraina antirussa, vale a dire contro una parte della popolazione ucraina, e poi di estrema destra, di piazza di Majdan. Che è stata sponsorizzata da media occidentali, dalla destra americana e, attivo sulla Majdan, dello stesso capo della Cia John Brennan, inviato all’uopo dalla Casa bianca sotto pressione dei Repubblicani. Con l’inevitabile reazione altrettanto violenta dell’est ucraino che è storicamente a componente russa, di lingua russa e filorussa.
Le sanzioni occidentali, che penalizzano fra l’altro l’Unione europea — e fortemente l’Italia, v. il blocco del gasdotto Southstream — e non solo la Russia, il disastro economico dell’Ucraina ancora sull’orlo del default e quasi seimila morti, in gran parte civili, sono la scia di devastazione umana e dei rapporti internazionali e di sangue che ne è derivata e che deve essere fermata. Subito con il cessate il fuoco, con una linea di demarcazione dei contendenti, con il disarmo controllato e con la definizione di uno statuto di autonomia reale per il Donbass insorto. Deve essere fermata ad ogni costo la spirale della guerra, ne va della pace in Europa. E nel mondo.
Perché gli Stati uniti attraverso la Nato e stavolta in contrasto addirittura con l’alleato britannico, mostrano di essere pronti ad inviare armi a Kiev e di accelerare i processi di ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica. Lo ha ripetuto — per fortuna solo a parole — il presidente Obama pensando così d’influire positivamente sulla trattativa che si apre oggi, per ricevere invece la risposta altrettanto dura di Mosca: «Se ci sarà la fornitura di armi dall’Occidente a Kiev sarà escalation militare».
È una doppia minaccia a quel che resta dell’Europa. Devono averlo inteso, come ultima spiaggia, anche Merkel e Hollande in visita prima dal «nemico» Putin e oggi protagonisti del nuovo, e sperabilmente risolutivo, vertice di Misk. Uno sforzo diplomatico sul precipizio quello dei due «normanni» che è stato addirittura criticato da alcune capitali dell’est europeo ormai diventate più atlantiche di quelle del Vecchio continente.
La tragedia sotto gli occhi di tutti è quella dell’inesistenza di una politica estera dell’Unione europea, surrogata com’è dalle scelte della Nato. Che ha realizzato con la crisi ucraina il suo progetto avviato dagli anni Novanta di allargamento ad est, tutto intorno ai confini russi, in un gioco di risiko che purtroppo ha visto ridislocare basi, nuovi sistemi di armi, scudo antimissile, rinnovati bilanci di guerra dell’est Europa, a partire dalla Polonia e dai Paesi baltici. Mentre l’Unione europea stava a guardare.
E non basta da questo punto di vista l’ultima dichiarazione della fin qui inesistente Mogherini per la quale l’unica soluzione della crisi «è politica». Adesso lo dichiara, dopo essere stata per un anno a guardare. Così come l’Europa è stata a guardare il terremoto sociale e umanitario che ha provocato con le scellerate scelte del Memorandum con cui la Commissione Ue ha piegato la vita dei greci riducendoli alla miseria e alla disperazione. Ora, mentre in negativo nel Donbass si combatte e scorre il sangue, in positivo ad Atene c’è la vittoria di Syriza e un mandato popolare che cancella l’esistenza della Troika, il superorganismo legato ai «mercati» che presiede ai diktat economici, che ha aperto finalmente il negoziato sul debito e che ha bloccato subito la spirale perversa delle privatizzazioni.
Se le cartoline d’Europa sono queste, è ormai impossibile far finta di niente mentre da una parte siamo sull’orlo di un conflitto armato almeno continentale, e dall’altro al tracollo dei confini dell’Eurozona.
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