Libia. Pronti a combattere a chi?

by redazione | 15 Febbraio 2015 17:20

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Siamo pronti a com­bat­tere», le parole del mini­stro degli esteri Paolo Gen­ti­loni sono chiare: il governo ita­liano Renzi-Alfano è pronto ad una nuova avven­tura mili­tare. Dove? In Libia. E come? Ma natu­ral­mente «sotto egida Onu», nel qua­dro della sup­po­sta lega­lità inter­na­zio­nale (can­cel­lata dalle tante guerre decise senza e con­tro le Nazioni unite). E per­ché? Per­ché i mili­ziani dello Stato isla­mico hanno occu­pato Sirte, la terza città della Libia 450 km da Tri­poli. Con evi­dente minac­cia diretta per l’Italia. Un inter­vento dun­que «preventivo».

Con in canna l’aggettivo «uma­ni­ta­rio»: la tra­ge­dia dei migranti afri­cani in fuga attra­verso la Libia, merce di scam­bio di bande rivali e abban­do­nati da noi ai cimi­teri marini.

Siamo sgo­menti. Pos­si­bile che Gen­ti­loni e Renzi non cono­scano la genesi del jiha­di­smo negli ultimi tre anni e le respon­sa­bi­lità che gra­vano sui governi d’Europa e Stati uniti? Come dimen­ti­care le parole, ahimé pro­fe­ti­che, del colon­nello Ghed­dafi , che ammo­niva gli occi­den­tali: «State aiu­tando i vostri veri nemici», men­tre jet della Nato, era il marzo del 2011, diven­ta­vano l’aviazione degli insorti islamisti?

Quella guerra deva­stò un Paese — Sirte, città natale di Ghed­dafi era ridotta ad un cumulo di mace­rie — che aveva il red­dito più alto dell’intera Africa. Con­se­gnan­dolo ad un sedi­cente Con­si­glio prov­vi­so­rio in balìa per due anni di una guerra tra tribù e clan, sulla quale ha preso alla fine il soprav­vento l’area più orga­niz­zata, i jiha­di­sti. Prima a Ben­gasi, dove sono andati alla resa dei conti con i loro spon­sor Usa, ucci­dendo l’11 set­tem­bre 2012 l’ambasciatore Chris Ste­vens, già respon­sa­bile in loco dell’intelligence ame­ri­cano durante la guerra. Uno smacco: si dimise Hil­lary Clin­ton segre­ta­ria di Stato e fu dimis­sio­nato David Petraeus, capo della Cia. Da allora in poi la Libia si è divisa in almeno tre realtà con­trap­po­ste, non senza ele­zioni far­se­sche quanto applau­dite da Europa e Usa che intanto tace­vano sul disprezzo dei diritti umani dei nuovi gover­nanti. Oggi in Libia di governi ce ne sono due. Anzi tre, per­ché nel frat­tempo i jiha­di­sti hanno tenuto in scacco Ben­gasi, pro­cla­mato l’Emirato a Derna e ora hanno con­qui­stato Sirte. E, gra­zie all’inquadramento occi­den­tale e ai tanti depo­siti di armi, sono il san­tua­rio dello jiha­di­smo in Siria e in Iraq. Così è andata.

Anche l’intervento mili­tare del 2011 — senza mai citare, come sta­volta, i nostri inte­ressi petro­li­feri — venne moti­vato per risol­vere, la que­stione dei migranti in fuga dalle guerre e dalla mise­ria dell’Africa dell’interno. Già con Ghed­dafi il patto era che, die­tro la pro­messa d’investimenti (la lito­ra­nea di Ber­lu­sconi) li tenesse ben chiusi nei campi di con­cen­tra­mento. Stessa richie­sta abbiamo avan­zato ai nuovi gover­nanti del Con­si­glio prov­vi­so­rio. E con la stessa moti­va­zione siamo «pronti a com­bat­tere» adesso: pur­ché i migranti siano fer­mati, magari in campi di acco­glienza come i Cie nostrani, ma con la scritta sopra delle Nazioni unite. Che ven­gono bol­late d’incapacità pro­prio sulla Libia. È stato lo stesso Mat­teo Renzi a dichia­rare « non più suf­fi­ciente» la mis­sione Ue-Onu del diplo­ma­tico spa­gnolo Ber­nar­dino Leon.

Così «siamo pronti a com­bat­tere», piut­to­sto che un impeto leo­par­diano, asso­mi­glia piut­to­sto al solito disprezzo dell’articolo 11 della nostra Costi­tu­zione e anche dell’Onu, la cui egida viene stru­men­tal­mente evo­cata ma con­si­de­rata più che per­dente. L’etichetta invece torna sem­pre utile per coprire una guerra.

Avan­ziamo una mode­sta pro­po­sta al mini­ni­stro Paolo Gen­ti­loni — che più di trenta anni fa si bat­teva con­tro l’installazione dei mis­sili stra­te­gici Usa sul nostro ter­ri­to­rio. Con­vo­chi una Con­fe­renza inter­na­zio­nale sugli errori (e sugli orrori) com­messi dall’Italia in Libia (e non solo). Solo così saremo all’altezza della minac­cia dell’Is che, appren­di­sti stre­goni, abbiamo con­tri­buito a creare.

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