L’ultimatum di Draghi solo una settimana e poi stacca la spina

by redazione | 5 Febbraio 2015 9:52

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ROMA . La Banca centrale europea dà sei giorni alla Grecia. Se il nuovo governo di Atene non cambia strada, se non rinuncia al radicalismo della sua prima settimana, rischia di soffocare finanziariamente. A quel punto l’uscita dall’euro potrebbe diventare una prospettiva più concreta, non fosse per le linee di emergenza che la banca centrale di Francoforte continua a riaprire ogni due settimane a favore delle banche elleniche.
Adesso la Grecia è appesa a un filo di cui l’Eurotower tiene saldamente l’altra estremità. Questa volta Mario Draghi, il presidente italiano della Bce, non aveva altra scelta. L’istituto di emissione presta denaro alle banche dell’area euro solo in base a regole precise: in cambio di quei finanziamenti, queste ultime devono portare in garanzia a Francoforte delle obbligazioni (di solito titoli di Stato) di qualità almeno accettabile. Se quei titoli sono classificati come “spazzatura” (formalmente “non-investment grade”), perché sono emessi da governi in insolvenza o vicini ad essa, la Bce può accettarli solo a condizioni molto precise. In particolare, quei governi devono impegnarsi ad attuare un programma economico di aggiustamento in cambio di finanziamenti dall’Europa o dal Fondo monetario. In sostanza, quando i titoli di un governo diventano “spazzatura”, la Bce li accetta come garanzie solo se quel governo accetta quella che – fino a ieri – è stata la troika.
È in questo modo che banche greche hanno continuato ad alimentarsi di liquidità in Bce dopo il default del 2011. Avevano in bilancio quasi solo titoli di Atene da presentare in garanzia a Francoforte in cambio di prestiti, ma Francoforte li accettava unicamente perché Atene a sua volta aveva sottoscritto un piano europeo di riforme e risanamento.
Non più. Yanis Varoufakis, il neo-ministro dell’Economia, in assenza di Draghi dice che la Bce «specula contro la Grecia come uno hedge fund». In pubblico e certamente anche ieri nel suo incontro con Draghi, Varoufakis aggiunge anche qualcosa di più: il governo di Atene non vuole più un programma europeo di aggiustamento ed è pronta a rinunciare ai prestiti degli altri governi europei e del Fmi che sono legati ad esso. Propone di risolvere il problema del suo debito semplicemente rifiutandosi (per ora) di saldarlo nei termini previsti. Inevitabile dunque che Draghi e gli altri banchieri centrali, a partire dall’11 febbraio, non possano più garantire ossigeno finanziario alle banche greche in cambio di titoli “spazzatura”. Per loro restano solo le linee di liquidità di emergenza, che l’Eurotower deciderà ogni due settimane se rinnovare o meno. La fragilità finanziaria del Paese, la sua dipendenza dal resto d’Europa, finisce così crudamente sotto i riflettori.
Il nuovo governo di Alexis Tsipras ha fino a mercoledì prossimo per decidere se rientrare nei ranghi e accettare che l’attuale programma europeo per Atene sia prolungato. Certo alcuni aspetti di esso andranno rinegoziati. Ma nella scelta di Draghi c’è un implicito messaggio politico, lo stesso emerso dal relativo isolamento nel quale Tsipras si è trovato in questi giorni nel suo viaggio fra Roma, Parigi e Bruxelles. Il messaggio è che la Grecia è un drammatico caso a sé. Non è l’apripista di un confronto europeo fra Roma, Parigi o Berlino. E il radicalismo o gli attacchi a testa bassa sono sì legittimi se servono a vincere un’elezione in un Paese in crisi profonda. Ma il giorno dopo, bisogna cominciare a muoversi in Europa come tutti gli altri. Alla ricerca del compromesso, non dei colpi a effetto.
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