Patto fiscale, finisce il segreto bancario
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Sostiene il ministro dell’Economia Carlo Padoan che l’accordo in procinto di essere firmato tra Italia e Svizzera segnerà la fine definitiva del segreto bancario svizzero. A Berna usano termini meno perentori, vuoi perché devono fare i conti con un’opinione pubblica interna non felicissima di vedere crollare la storica barriera, vuoi perché contano comunque sul fatto che, segreto o no, la piazza finanziaria svizzera continuerà a essere una delle più ambite al mondo. Ma la svolta c’è tutta: domani a Milano Padoan e la sua omologa elvetica Eveline Widmer-Schlumpf porranno la firma sull’accordo fiscale costato tre anni di aspre trattative tra i due governi.
L’accordo di Milano è molto articolato ma sono individuabili due punti fondamentali. Il primo: i due Stati potranno scambiarsi molto più speditamente informazioni in campo bancario e fiscale.
Fino a oggi per sapere se Tizio o Caio avevano soldi su conti di Lugano era necessaria una rogatoria internazionale motivata dal fatto che si poteva essere in presenza di qualche reato. Grazie al nuovo accordo l’Agenzia delle Entrate italiana potrà chiedere direttamente agli svizzeri informazioni su tutti i contribuenti; a partire dal 2017 lo scambio dei dati sarà automatico, senza più nemmeno la sollecitazione del Fisco italiano. Seconda novità: la Svizzera potrà uscire dalla cosiddetta «black list» dei paradisi fiscali; in seguito a ciò gli italiani che aderiranno alla voluntary disclosure (dichiarare cioè spontaneamente di avere un conto in Svizzera) pagheranno sanzioni dimezzate. Anche l’economia elvetica avrà il suo tornaconto: cancellate dalla «black list», le imprese e le banche incontreranno meno barriere per entrare sul mercato italiano. È davvero la fine di un’epoca? In buona parte è difficile dare torto a Padoan. L’origine del segreto bancario elvetico viene fatta risalire addirittura al ‘600, quando i re di Francia, cattolici a sempre assetati di soldi, trovavano comodo farsi finanziare anche da ricchi protestanti. Purché non si sapesse in giro e in questo caso la riservatezza era garantita dai banchieri ginevrini. Il segreto viene però codificato da una legge del 1934 figlia di un drammatico fatto storico: la crisi del ‘29 aveva trasformato la Svizzera nel rifugio di molti capitali in fuga e Berna aveva ritenuto opportuno equiparare la privacy delle banche a quella di medici e avvocati.
Quello scudo impenetrabile da allora ha subito continui attacchi etici, a partire dai primi anni del Dopoguerra, quando si scoprì che nelle banche della Confederazione erano custoditi i beni sottratti agli ebrei vittime delle persecuzioni naziste. L’Italia ha sempre approfittato a piene mani dell’ospitalità elvetica: uno studio di Kpmg stima che oggi si trovino a nord di Chiasso 220 miliardi di euro provenienti dall’Italia, stessa cifra appartenente ai contribuenti tedeschi.
Ma né la fine del segreto bancario né lo choc valutario del super franco sembrano aver tolto alla Svizzera l’appeal di paradiso per chi ha i soldi: nel 2014 le società anonime sulla piazza di Lugano sono cresciute del 10%.
Claudio Del Frate
Fino a oggi per sapere se Tizio o Caio avevano soldi su conti di Lugano era necessaria una rogatoria internazionale motivata dal fatto che si poteva essere in presenza di qualche reato. Grazie al nuovo accordo l’Agenzia delle Entrate italiana potrà chiedere direttamente agli svizzeri informazioni su tutti i contribuenti; a partire dal 2017 lo scambio dei dati sarà automatico, senza più nemmeno la sollecitazione del Fisco italiano. Seconda novità: la Svizzera potrà uscire dalla cosiddetta «black list» dei paradisi fiscali; in seguito a ciò gli italiani che aderiranno alla voluntary disclosure (dichiarare cioè spontaneamente di avere un conto in Svizzera) pagheranno sanzioni dimezzate. Anche l’economia elvetica avrà il suo tornaconto: cancellate dalla «black list», le imprese e le banche incontreranno meno barriere per entrare sul mercato italiano. È davvero la fine di un’epoca? In buona parte è difficile dare torto a Padoan. L’origine del segreto bancario elvetico viene fatta risalire addirittura al ‘600, quando i re di Francia, cattolici a sempre assetati di soldi, trovavano comodo farsi finanziare anche da ricchi protestanti. Purché non si sapesse in giro e in questo caso la riservatezza era garantita dai banchieri ginevrini. Il segreto viene però codificato da una legge del 1934 figlia di un drammatico fatto storico: la crisi del ‘29 aveva trasformato la Svizzera nel rifugio di molti capitali in fuga e Berna aveva ritenuto opportuno equiparare la privacy delle banche a quella di medici e avvocati.
Quello scudo impenetrabile da allora ha subito continui attacchi etici, a partire dai primi anni del Dopoguerra, quando si scoprì che nelle banche della Confederazione erano custoditi i beni sottratti agli ebrei vittime delle persecuzioni naziste. L’Italia ha sempre approfittato a piene mani dell’ospitalità elvetica: uno studio di Kpmg stima che oggi si trovino a nord di Chiasso 220 miliardi di euro provenienti dall’Italia, stessa cifra appartenente ai contribuenti tedeschi.
Ma né la fine del segreto bancario né lo choc valutario del super franco sembrano aver tolto alla Svizzera l’appeal di paradiso per chi ha i soldi: nel 2014 le società anonime sulla piazza di Lugano sono cresciute del 10%.
Claudio Del Frate
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